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Oscar 2014, il grande inganno americano tra verdetti e protagonisti

Toni Servillo e Paolo Sorrentino con l'Oscar per il miglior film straniero

Toni Servillo e Paolo Sorrentino con l’Oscar:
“La Grande Bellezza”, miglior film straniero

di Marco Chiappetta

Nella parata di stelle della notte losangelina se ne distinguono tre napoletane: il produttore Nicola Giuliano, l’attore (con a maiuscola) Toni Servillo e ovviamente il regista Paolo Sorrentino. “La grande bellezza” conquista, come da copione, l’Oscar per il miglior film straniero che pareva già promesso da varie avvisaglie (Golden Globe, BAFTA, EFA, la partecipazione a Cannes), e che, a quindicianni anni dall’exploit di Roberto Benigni con “La vita è bella”, riporta gloria e prestigio al sonnacchioso e misconosciuto cinema italiano. Non che negli ultimi anni i talenti siano mancati (Moretti, Garrone, Tornatore sempre sulla cresta dell’onda), ma Sorrentino, già apprezzato sulla Croisette, già amato da vari maestri americani, ha avuto il merito di riportarlo a stature internazionali a cui avevamo perso l’abitudine. “La grande bellezza” forse non è il capolavoro ambito e acclamato, nemmeno il miglior film dell’originale autore napoletano, ma la sua critica di costume, la sua Roma bella e vintage, gli echi a Fellini e a certo nostro cinema che non c’è più, ha avuto (soprattutto oltre i confini nazionali) un impatto mediatico notevole e che ci fa ben sperare. Merito di un’operazione di marketing “sedimentata nel chiacchiericcio” e in feste mondane forse non tanto lontane dalla finzione, che ne ha alzato la vocazione e le ambizioni. Il cinema italiano torna quindi a respirare e rivivere internazionalmente: speranze di nuove esportazioni, nuovi orizzonti, un cambiamento culturale sono possibili. Di questo orgoglio, partenopeo e italiano, non si può che gioire. L’applauso degli americani a Sorrentino non esclude, tuttavia e per niente, l’alto valore dei film dimenticati, su tutti il bellissimo “Il Sospetto” del danese Thomas Vintenberg (quello sì un capolavoro), che da Cannes 2012 in poi è rimasto quasi sempre e sempre ingiustamente a bocca asciutta. “La grande bellezza” è un film da Oscar per quel che significa Oscar. Film con meno fortuna mediatica, come “Il passato” di Asghar Farhadi (già Oscar per “Una separazione”), film con difficile o inesistente tiratura (il messicano “La gabbia dorata”, il giapponese “Like Father, Like Son”, il cinese “Il tocco del peccato” acclamati a Cannes), o anche il discusso “La vita di Adele” palmato a Cannes, non sono entrati nella cinquina. Poco importa, dal punto di vista del campanilismo. È tempo di cambiamento. E che Sorrentino dedichi il suo premio anche a Roma e Fellini, a Napoli e Maradona, fa capire certe priorità e certi orgogli di solito dimenticati e sottovalutati. Nessuna sorpresa del resto, per quanto riguarda i premi maggiori. “12 anni schiavo” vince per il miglior film, la sensazionale attrice non protagonista (l’esordiente Lupita Nyong’o) e la sceneggiatura non originale.

A Steve McQueen l'Oscar miglior film per "12 anni schiavo"

Oscar a Steve McQueen: “12 anni schiavo” miglior film

A “Gravity” di Alfonso Cuaròn spetta un trionfo, sette statuette: regia, montaggio, fotografia (Emmanuel Lubezki, già “occhio” di Terrence Malick), colonna sonora (Steven Price), effetti speciali, montaggio sonoro e missaggio sonoro. Un film che resterà, forse più di “Avatar”, in certo immaginario collettivo della fantascienza. Non sorprende che ancora una volta Leonardo Di Caprio, alla quarta nomination come attore, resti a guardare il trionfo altrui: Matthew McConaughey, che con lui condivideva già una geniale scena d’apertura in “The Wolf Of Wall Street”, gli soffia come da pronostico la statuetta per la sua straordinaria performance in “Dallas Buyers Club”, dove, dimagrito di quasi trenta chili, dà volto, fisico e qualcosa in più a un malato di AIDS che lotta per la vita. Il bel film di Jean-Marc Vallée conquista anche l’Oscar per il miglior attore non protagonista, l’incredibile Jared Leto tornato dopo anni di assenza sullo schermo, indimenticabile come transessuale condannato a lenta morte, e per il trucco (Robin Mathews, Adruitha Lee) che ha fatto un vero miracolo. Donna sull’orlo di una crisi di nervi in “Blue Jasmine” di Woody Allen, Cate Blanchett vince un meritato secondo Oscar (dopo quello di “The Aviator”), battendo la concorrenza di signore attrici come la solita Meryl Streep (18esima nomination per “I segreti di Osage County”), Amy Adams (quinta nomination a vuoto), l’enorme Judi Dench di “Philomena” e una Sandra Bullock mai così brava in “Gravity”.

Oscar per Miglior attore protagonista a Matthew McConaughey ("Dallas buyers club")

Oscar per Miglior attore protagonista a Matthew McConaughey

Ancora una volta Woody Allen si è confermato un impeccabile direttore di interpreti femminili. Per la prima volta autore solitario di un suo film, Spike Jonze porta a casa il premio per la miglior sceneggiatura originale di “Her”, in uscita in Italia il 13 marzo. “Frozen”, ultimo prodotto Pixar, vince due statuette, per il miglior film d’animazione e per la miglior canzone (“Let It Go”, di Kristen Anderson Lopez e Robert Lopez). “Il grande Gatsby” di Baz Luhrmann ottiene il doppio riconoscimento per costumi e scenografie (della moglie del regista Catherine Martin, e Beverley Dunn). A mancare all’appello, ovviamente, i perdenti. “American Hustle” rinnova la fiducia al genio di David O. Russell, ma le dieci nomination a vuoto sono un’onta pesante: a “The Fighter” e a “Il lato positivo” era andata un poco meglio, con i riconoscimenti il primo agli attori non protagonisti (Christian Bale, Melissa Leo), il secondo a Jennifer Lawrence, che non si è ripetuta. Un peccato. Anche “Nebraska” di Alexander Payne e il già citato “The Wolf Of Wall Street” sono assenti dal palmares, nonostante le candidature ai premi più importanti e un plebiscito di consensi meritatissimo: ancora qui, poco importa, Payne e Scorsese restano tra i giganti del cinema americano, tra i cantori più sagaci e cinici del loro paese, e già hanno la statuetta in casa da anni. Gli Oscar celebrano un certo tipo di cinema. Non sono verità assolute. Sono le verità americane. Dimenticarsi completamente di film speciali come “Come un tuono”, “Prisoners” (nomination alla fotografia) e lo stupendo “A proposito di Davis” dei Coen (candidato solo per fotografia e missaggio sonoro) è nella regola. È nella regola dimenticare dagli epitaffi commemorativi la fresca scomparsa di Alain Resnais, tra i geni indiscussi della storia del cinema mondiale (senza di lui niente Nouvelle Vague, quindi niente Scorsese, quindi niente Sorrentino, quindi niente serata degli Oscar). Ciò che resta è entertainement. Una foto cosiddetta “selfie”, ricca di star, cliccata e ricliccata e “retweetata” ad infinitum dal mondo mediatico per un record storico, canzoni e balletti, una presentatrice simpatica e controcorrente (Ellen DeGeneres) che offre pizze e gratta e vinci, per uno spettacolo che non cessa mai di divertire. E di ingannare.

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