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“Blue Jasmine”: Woody Allen a San Francisco, tra drammi e crisi dell’alta borghesia

28671di Marco Chiappetta

TRAMA: Jasmine (Cate Blanchett), ricca e splendida quarantenne newyorkese, in piena crisi di nervi ed esistenziale dopo la bancarotta e il suicidio del marito imprenditore Hal (Alec Baldwin), parte alla volta di San Francisco per cominciare una nuova vita. Si stabilisce a casa della sorella Ginger (Sally Hawkins), povera cassiera, divorziata e fidanzata col rude Chili (Bobby Cannavale), la quale, nonostante anni di separazione e antichi screzi mai risolti, si offre di aiutarla a trovare un lavoro, un uomo e una speranza nuova nella vita. Ma il percorso autodistruttivo di Jasmine è in atto e ormai impossibile da fermare.
GIUDIZIO: Ispirato a grandi linee a “Un tram che si chiama desiderio” di Tennessee Williams e dunque al film di Elia Kazan, è tra i film più cupi, disperati, inesorabili di Woody Allen, che di nuovo ha ceduto alla lusinga di un film drammatico, cioè di pura drammaturgia teatrale e studio dei personaggi: il ritratto di una donna in rovina, vissuto più che interpretato da una Cate Blanchett masochistica e intensa, fa rima con quelli che il cineasta ha dipinto in “Un’altra donna”, “Alice”, “La rosa purpurea del Cairo”, aggiornandoli al tempo d’oggi, tempo di crisi economica, esistenziale e culturale. Con un film pienamente nelle sue corde più intimiste e melodrammatiche, spesso crudele e mai retorico, ironico e cinico, ma ben lontano dalla sua brillantezza comica di stampo ebreo e persino da una morale catartica, pessimista fino alla catastrofe, aggiorna ancora una volta la sua poetica dell’illusione come farmaco (con effetti collaterali) alla vita grama, e tesse un affresco spietato della high class americana, come e più di altri suoi film. Il fascino principale di “Blue Jasmine” è comunque la sua struttura a incastri narrativi, dove il prima e il dopo si fondono, quasi a formare quella confusione mentale, di cocktail e antidepressivi mischiati, che è il labile tessuto psicologico della sua protagonista, di cui viviamo ogni aspetto del suo dolore, compatiamo con imbarazzo ogni caduta. A sorprendere non è che il film sia bello, ma che Woody Allen, lasciate momentaneamente le alterne fortune e gli alterni generi provati nelle trasferte europee, abbia ritrovato sé stesso e il suo cinema nella California che in passato (vedi “Io e Annie”) ha travolto di sarcastiche, ingrate frecciatine.
VOTO: 3,5/5