Home » Cinema, News, Spettacolo » “Dogman”, storia struggente di una violenza animale

“Dogman”, storia struggente di una violenza animale

30420767-160224807978263-4557987999146023396-o_187adi Marco Chiappetta

TRAMA: Marcello (Marcello Fonte), mite e minuto gestore di un negozio di tolettatura per cani, è così succube della minacciosa violenza di Simoncino (Edoardo Pesce), brutale e corpulento delinquente che terrorizza il paese, da finire per soccombere subdolamente alle sue volontà, rinunciando alla dignità, alla libertà, al rispetto degli altri, finché non è costretto a intraprendere una tragica, violenta presa di posizione.
GIUDIZIO: Ambientato in un non luogo cupo e involontariamente surreale come Castel Volturno, già cornice de “L’imbalsamatore”, e impregnato di una tensione intollerabile che passa anche attraverso i suoni (perlopiù metereologici e animali) e i colori (tersi e spenti, presi dalla fotografia di Nicolai Bruel), il film di Matteo Garrone è un crudele, devastante racconto di violenza, ispirato alla triste vicenda del cosiddetto Canaro della Magliana, del tutto privo di fronzoli retorici e cadute splatter ma fedele al suo linguaggio immediato, semplice e sincero, tanto nella scrittura lineare e compiuta dei personaggi e della vicenda, quanto nel realismo della sua messinscena fatta perlopiù di pianosequenza e pregna di un’empatia straziante, quella che traspare da ogni movimento di macchina e soprattutto dal volto scavato, dal corpo esile, dalla voce querula dell’immenso Marcello Fonte, l’ultima se non la più grande rivelazione scoperta dal regista romano: un attore, quasi sconosciuto e inesperto, che domina e vive il film con una tenerezza e insieme un’insospettabile, goffa crudeltà che ne fanno un antieroe tragico, un altro borghese piccolo piccolo in cerca di vendetta, al cospetto del cattivo assoluto abilmente incarnato da Edoardo Pesce. E attraverso l’interpretazione autentica, dolente, piena di sfumature psicologiche di un attore in stato di grazia, Garrone riconferma, forse meglio che altrove, la sua poetica unica, insieme dolce e brutale, capace di raccontare l’umanità che tracolla dall’alto (la bontà di un padre, un amante dei cani, un uomo mite) fino all’abisso (umiliazioni, offese, prevaricazioni, avidità, edonismo spicciolo, infine vendetta), partendo dal locale (il deserto etico del Volturno, inferno di squallore e miseria) e raggiungendo l’universale, attraverso un continuo confronto tra i cani e gli umani, i primi silenti e impotenti testimoni della violenza sì, davvero animale, dei secondi. Il risultato, in un finale da brividi e tesissimo, è lontano da qualsiasi retorica consolatoria ed anche dal cinismo più scontato, eppure dotato di una forza morale indefinibile come le suggestioni emotive che provoca ed evoca dall’inizio alla fine, con un senso della sintesi e della poesia che possiedono pochi registi al mondo, nessuno in Italia. È cinema maiuscolo, personalissimo, magistrale, inventivo, che entra sotto pelle per poi esplodere, compiuto dentro e fuori, con un’adesione autentica al grottesco e un senso della violenza mai compiaciuta, mai gratuita, mai spettacolarizzata, ma necessaria e naturale, per questo ancor più struggente. È un pugno nello stomaco, ma anche e soprattutto una pugnalata al cuore. Meritatissimo il premio a Cannes per Marcello Fonte, ma la vittoria più grande del film è la conquista di un posto imperituro nella memoria cinefila, proprio come “Reality” e “Gomorra”.
VOTO: 5/5