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Aspettando Laura/2

0di Stefano Santos

Passarono due giorni in cui non accadde alcunché di interessante. Per una sfortunata coincidenza, i passeggeri del Cavriago-Doti non avevano dovuto aspettare nulla per prenderlo. Per altri quattro giorni addirittura nessuno prese la linea. Finché il settimo giorno dalla partenza dell’operaio, nell’attesa del ragazzo si presentò una figura nuova, che ebbe un folgorante quanto breve importanza. Basso e tarchiato, si accostò impercettibilmente alla panchina. Sotto braccio aveva una risma di fogli colorati, mentre alla cintura portava attrezzi da lavoro. Si avvicinò al cartello del bus, con il cacciavite tolse il pannello degli annunci e cambiò il vecchio foglio ingiallito con uno nuovo dalla risma e richiuse il tutto.
“Cosa succede?” chiese incuriosito il ragazzo. “Ma non lo sai? Hanno chiuso la Cavriago-Doti. Con il completamento della nuova metropolitana, non c’è ne più bisogno. Meno male, avevo sentito dire che non passava quasi mai” si preparò per il prossimo cartello “Beh, che dire. Viva il progresso!”
Ruttò, e se ne andò come se ne era venuto, lasciando ancora una volta il ragazzo da solo. Entrambe le betulle avevano completato il loro ciclo di diradamento delle foglie; ormai gialle, rinsecchite e emananti il caratteristico odore del temporale appena passato, ingombravano quell’anonimo angolo di strada. A completare il processo di spersonalizzazione dell’isolato ci aveva pensato il tempo: il ragazzo si scordò presto di come fosse una giornata assolata.
I giorni e i mesi passarono, senza che accadesse qualcosa. Si sa, l’uomo fa fatica a accorgersi delle cose: ha sempre bisogno dell’aiuto altrui per notare fatti, persone o oggetti, anche quelli più superficiali e evidenti all’occhio umano. E se non c’è un amico, un parente o una persona di conclamato acume a portata di mano, allora è certo l’oblio.
146473315-young-man-checks-phone-at-bus-stop-gettyimagesPer il caso del ragazzo, ci volle un giovane giornalista a caccia di qualche interessante storia per iniziare una folgorante carriera. Per una coincidenza linguistica, fu proprio il caso a farli incontrare.
La strada che separava la redazione del giornale e la dimora del giornalista aveva un tratto proprio in quell’anonimo angolo di strada in cui il ragazzo attendeva Laura, e ogni mattina che veniva il giovane reporter passava vicino al ragazzo senza che si accorgesse di lui, confuso tra gli altri passeggeri. Anche il ragazzo non l’aveva notato, essendo interessato solo a ciò che si poneva davanti a lui, cioè ai bus e ai suoi utilizzatori.
La reciprocità del rapporto s’interruppe per una moneta da un euro, che il giornalista voleva usare per comprare la sua rivista preferita, in una giornata piovosa. La teneva in mano, giocherellandoci con le dita, facendola lanciare in aria e poi riprenderla, in cerca di una edicola aperta.
Mentre osservava il lento moto di una foglia di betulla che cadeva in terra, la monetina, resa viscida dall’acqua piovana, gli scappò di mano, e più veloce della foglia, tintinnò al contatto del marciapiede. Rotolò, perfettamente perpendicolare al suolo, tra le pozzanghere e i mozziconi di sigaretta. Al giovane giornalista, dopo un breve e vano inseguimento, non rimanette altro che osservarla mentre andava a precipitare tra le griglie del tombino. Ma non fu così, poiché una scarpa da ginnastica nera fu sufficiente a fermarla; roteò su stessa e tintinnò più volte prima di cadere. Una mano la prese e la offrì all’incredulo scrittore, il quale si allungò per prenderla. Mormorò un ringraziamento e se ne andò, infilando la moneta nel taschino. La lezione del giorno.
Il rapporto, da reciproco, divenne unilaterale: dal punto di vista del ragazzo cambiò poco o nulla; dal canto del novello cronista fu un volto nuovo, di cui ci scorda mentre si fa altro, ma che sovviene alla mente non appena lo sguardo si posa sull’interessato. Questa situazione si ripropose più e più volte nella routine giornaliera del giovane, che almeno due volte al giorno vedeva quello strano ragazzo sempre seduto a quella panchina, sia che fosse mattina presto o che fosse la sera tarda. Più raramente lo vedeva parlare con qualcuno. La prima volta fu con una massaia, attorniata di buste, la seconda con un bellimbusto in giacca e cravatta. Una volta lo aveva visto pure a notte fonda, verso l’una, a conversare con un tizio in tuta blu. Da quando sentì della chiusura della Cavriago-Doti, non lo aveva più visto con qualcuno. Non ne comprendeva però la connessione. Attese molto tempo prima che intuisse la potenzialità della storia che si decidesse finalmente a parlargli. Era la disarmante banalità dell’impostazione che lo fermava dallo scrivere su di lui. Fu solo quando realizzò che erano tre mesi che era seduto ininterrottamente, nessuno lo aveva denunciato come barbone puzzone e dal bicchiere facile e dopo un appostamento durato ventiquattr’ore non lo aveva mai visto alzarsi, che si decise. Il piano di battaglia era molto semplice: si sarebbe seduto accanto a lui e avrebbe parlato del più e del meno.
WPIl pomeriggio tardo, all’imbrunire, entrambi si trovarono alla stessa panchina, il secondo mese dalla partenza dell’operaio. Non avendo nulla a cui appigliarsi per attaccare discorso, pensò con malinconia al registratore che aveva nascosto per tenere appunti senza passare per giornalista, che avrebbe potuto intimorire o irritare l’intervistato. Fu il ragazzo, come aveva fatto per gli altri suoi compagni di vita, a iniziare la conversazione. Non un incipit degno di un’opera immortale, né un attacco di un folgorante servizio giornalistico, né l’inizio di un’orazione da visibilio.
“Aspetti qualcuno? Se vuoi andare fuori città scordatelo, almeno da qui, che hanno chiuso la Cavriago-Doti.”
“No, no, non devo andare da nessuna parte. Io abito qui vicino, a cinque minuti. Non mi servirebbe. Ho camminato molto e essendo pigro di costituzione, dovevo sedermi assolutamente. Non sai quanto mi fanno male i piedi! E tu?”
“Dio, da quanto tempo che non dico cosa sto facendo. L’ultima volta è stata con un operaio, la penultima con un uomo d’affari. E la santa donna, non ne parliamo.” Il giornalista alzò gli occhi in un gesto eloquente “Una progressione. Quanto è stato difficile dirlo; sei veramente fortunato, se no dovevi tornare un paio di volte ancora per sentire l’intera storia. Non aspetto un bus, come sembrerebbe se mi si vedesse; indago con lo sguardo il viso di ogni persona che passa per i mezzi pubblici; mi struggo nel vedere che nessuno corrisponde ai requisiti; sto aspettando una persona, ma non mi chiedere di descriverla perché devi aspettare per sentire il resto; l’interessato non ha i capelli corti, né baffi, né barba, né un pomo d’Adamo, a ben specificare, è una ragazza, non mi chiedere di descriverla perché… sei impaziente! Il nome, il cognome è tabù per me, è Laura, quella petrarchesca a un pensiero più ragionato, quella di Nek a un pensiero più terra terra. Ed è tutto. Non mi chiedere quanto tempo è passato, che non lo so proprio. Un primitivo senso del tempo mi suggerisce un ordine di mesi, ma è sicuro che mi sbagli, possono anche trattarsi di anni. Per il tuo mal di piedi, consiglierei un abluzione in acqua e bicarbonato, che fa miracoli. Credo sia veramente tutto.”
Come per i precedenti interlocutori, l’impressione suscitata dalla mole di informazioni spiazzò il giovane giornalista, e in cuor suo sperò che tutto fosse stato registrato, perché aveva afferrato ben poco di quello che aveva appena detto e in più non sapeva cos’altro dirgli. Inventò spudoratamente una giustificazione e colse al balzo il primo autobus che vide.
“Mi sono appena ricordato che devo fare una commissione importante. Ci vediamo, eh!” disse, e salì gli scalini.
“Che tipo strano!” ebbe da dire tra sé e sé il ragazzo, poi gli rispose a voce alta “Sì, sì, ci vediamo! Come no…”

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