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“The Grand Budapest Hotel”, il solito Wes Anderson

hr_The_Grand_Budapest_Hotel_3di Marco Chiappetta

TRAMA: Fine anni ’60 – Nel Grand Budapest Hotel, situato tra le montagne mitteleuropee dello stato (inventato) di Zubrowka, un tempo turistico e glorioso, ora solo deserto e decadente, il suo strano proprietario Zero Mustafa (F. Murray Abraham) racconta la sua storia a un giovane scrittore (Jude Law), da quando nel 1932, ragazzino (Tony Revolori), vi lavorava come lobby-boy al servizio del concierge Monsieur Gustave (Ralph Fiennes), con cui ha vissuto la più incredibile delle avventure: il furto di un quadro di Van Hoytl (inventato), che questi ereditò legalmente dalla sua anziana amante Madame D. (Tilda Swinton), la fuga dal suo irascibile figlio Dmitri (Adrien Brody) e dal violento Jopling (Willem Dafoe), la fuga dalla polizia (che lo accusa di aver ucciso la donna), l’arresto, l’evasione dal carcere e una serie di peripezie spericolate, incontri, scontri con un mondo di personaggi coloriti.
GIUDIZIO: Ottavo film di Wes Anderson, emblematico del suo autore, talmente onnipresente in ogni inquadratura, in ogni dettaglio, da sembrare quasi un’auto-parodia. Riconoscibilissimo per il solito stile barocco, per le inquadrature fisse tipo foto in posa, l’abbondanza di musica (Alexandre Desplat), l’umorismo leggerissimo, e i continui rimandi nostalgici a certa iconografia vintage, anche questo film non dimostra nulla. Stilista dell’immagine come pura perfezione a sé stante, Anderson non riesce ad assemblarne più di una dopo l’altra per creare qualcosa di omogeneo. La forma estetizzante, ossessivamente composta come un quadro, ma dentro vuota, vuotissima, è ancora una volta il pretesto per regalare visioni di un mondo colorato, surreale, tra il cartoon e il fumetto, che più frivolo non si può. Divertente a tratti, grazioso, gradevole, simpatico, carino, quel che si vuole, ma niente più. Rapisce certo l’occhio, qualche sparuto sorriso, ma già dopo un solito inizio falsamente brillante (le sue famose, fittizie, interminabili introduzioni) tutto questo materiale scenico, questo carnevale di colori, scenografie, costumi, star sfruttate per insignificanti cameo, distrae dal contenuto del film: che infatti non c’è. Tutto resta nella caricatura, nella vignetta, nella freddura, nella gag, persino certi tentativi di profondità e malinconia sembrano artefatti. Affollato, eccessivo, fiabesco senza morale, imbevuto di una comicità buffonesca e infantile non di rado improbabile, in fin dei conti inconsistente come zucchero filato, dimostra che Wes Anderson, essendo creatore e demiurgo e manipolatore di un mondo personalissimo, ha il potere autoritario di sceglierne regole e toni, che cambia a tavolino come e quando gli pare: chi può lo accetta, chi non può vi si perde. Rispetto al precedente “Moonrise Kingdom” o al suo film forse più riuscito, ”I Tenenbaum”, la mancanza di una storia, di un senso autentico che leghi i personaggi tra di loro, che li caratterizzi, si fa sentire eccome. Un vero peccato che un regista di tale inventiva visiva non riesca a usarla per comunicare qualcosa. Quanto allo straordinario cast (che comprende anche: Mathieu Amalric, Jeff Goldblum, Harvey Keitel, Bill Murray, Edward Norton, Saoirse Ronan, Jason Schwartzman, Léa Seydoux, Tom Wilkinson, Owen Wilson), sono uno più sprecato dell’altro, eppure tutti utilissimi per vendere il prodotto.
VOTO: 2,5/5