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“La gabbia dorata”: l’odissea tragica degli immigrati sul treno dei sogni

la-gabbia-dorata-poster-italiadi Marco Chiappetta

TRAMA: Tre adolescenti – Juan (Brandon Lòpez), Sara (Karen Martinez) che si finge maschio e Samuel (Carlos Chajon) – partono insieme dal Guatemala per raggiungere a piedi, in treno, in qualunque modo gli Stati Uniti. Alla prima difficoltà, il pavido Samuel si tira indietro, e ai due si aggiunge Chauk (Rodolfo Dominguez), ragazzino indio di Chiapas che non conosce lo spagnolo, subito malvisto da Juan. Attraversando tutto il Messico in condizioni disperate, i tre si imbattono in un paese ostile, indifferente, crudele, e il loro ingenuo sogno dell’America si scontra con la realtà violenta, tragica e orribile della vita.
GIUDIZIO: Premio “Un certain talent” a Cannes, l’opera prima di Diego Quemada-Diez, spagnolo trapiantato in USA che si è fatto le ossa come cameraman (per registi come Ken Loach, Alejandro Gonzàlez Iñarritu, Spike Lee, Oliver Stone, Tony Scott), è un’autentica rivelazione. Puro cinema dello sguardo, di una forza morale e visiva inaudite, che racconta senza mezzi termini, senza pathos, senza bugie, l’odissea tragica di una gioventù (suo malgrado) bruciata, destinata al rito sacrificale attraverso le varie sadiche, insostenibili prove che la strada per l’America pone loro. Questo viaggio “on the road”, o per meglio dire “on the railways”, verso un sogno americano che si rivela incubo, è teso come una miccia, miscelato di brutalità e dolcezza. La panoramica su un paese, su una società intera votata al male, sulle dinamiche dei viaggi della speranza, è cruda, realistica, dettagliata, frutto di anni di ricerche, indagini, studi sul luogo e interviste: il regista ha pensato proprio a tutto. Lo sguardo lucido, secco, impietoso, cionondimeno toccante e profondo, che il regista rivolge verso il mondo degli emarginati, dei disperati, risente della lezione del neorealismo italiano: fonde il tocco documentario, l’ambizione di rappresentare la realtà per quella che è, con le regole di una storia, raccontata con autentica arte cinematografica e un crescendo emotivo sottile e devastante. Le immagini, spesso aiutate quanto basta dalla musica, sono straordinarie, poetiche. I giovanissimi attori che riempiono le inquadrature, tutti non professionisti e presi dalla strada, comunicano un universo di sensazioni. L’abilità, davvero miracolosa, del regista è trasportare lo spettatore nella storia, nella pelle dei personaggi, nel cuore di un mondo marcio visto in tutti i suoi frammenti di orrore. La sensibilità, la naturalezza, la giustezza che condiscono ogni gesto, ogni scena, facendola necessaria e unica, rivelano una maestria rara, di un cinema che serve, che fa bene. Non muta la realtà, ma la tange e la espone come nuova all’occhio nudo, in tutte le sue sfumature di umanità e disumanità, abiezione e speranza. Il dramma dell’immigrazione, che tanto cinema ha raccontato fino all’abuso, sembra essere visto per la prima volta con i giusti occhi. Trafficanti di uomini, trafficanti di droga, poliziotti corrotti, cecchini, truffatori e fanatici della violenza sono i mostri che si affacciano nell’epopea amara dei protagonisti. Ma c’è dell’altro: l’educazione sentimentale infantile, il racconto di formazione, la scoperta dell’altro e del mondo, la comunicazione possibile tra due linguaggi sconosciuti che si fa silenzio, il passaggio all’età adulta attraverso l’incontro con la morte e con l’orrore, la tolleranza e la fratellanza nella cattiva sorte, la strepitosa metamorfosi del rapporto tra Juan e Chauk, da ostili a fraterni, fino a salvarsi la vita, la luce effimera dei sogni, di questa America edulcorata che si rivela essere polvere negli occhi, “la gabbia dorata” che imprigiona l’innocenza per sempre.
VOTO: 4/5