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“La Classe”, l’inno alla vita di Nanni Garrella attraverso lo sguardo dei pazienti psichiatrici

di Stefano Santos

Con lo spettacolo “La Classe”, andato in scena in prima mondiale il 14 e 15 giugno al Ridotto del Teatro Mercadante, il regista Nanni Garella conclude un percorso di studio e approfondimento sull’opera del grande drammaturgo polacco Tadeusz Kantor, “La Classe Morta”, iniziato sotto forma di laboratorio teatrale l’estate del 2012, materializzatosi con lo spettacolo messo in scena tra Novembre e Dicembre del 2012 al Teatro delle Moline di Bologna e affinatosi ulteriormente con il debutto nella rassegna partenopea. Lo studio è stato condotto assieme agli attori della compagnia di Arte e Salute ONLUS, associazione che attraverso il teatro (in collaborazione con il dipartimento di salute mentale dell’azienda USL di Bologna) si propone di migliorare l’autonomia e la qualità della vita delle persone che soffrono di disturbi psichici, e che in passato ha spesso collaborato con lo stesso Garella, portando in scena autori come Pirandello, Pinter, Brecht e Pasolini con notevoli risultati.

“La seduta drammatica”, come la definiva Kantor, si è svolta in una scenografia spartana, composta da una fila di banchi di scuola, posta al centro della scena, con le luci puntate sui protagonisti, anziane figure canute, quasi impolverate nei loro abiti scuri, maldestramente adattati alle loro figure, seduti e con lo sguardo fisso, mentre il pubblico si accinge ad entrare nella sala. Un stasi che si interrompe quando tutto il pubblico si è accomodato, con il gesto della V di uno degli anziani-alunni – che chiede di andare al bagno – imitato in progressione da tutti gli altri. Quando tutte le mani sono alzate, la “scolaresca” lascia la scena, per poi tornare, infrangendo il silenzio con il suono di un valzer, un leitmotiv che ritornerà spesso nel corso dello spettacolo. A seguire è un susseguirsi di scene in cui lo spettatore diventa sempre più consapevole dello straniamento, dell’alienazione provocata da anziani che cercano di rievocare la spensieratezza e la giocosità dell’infanzia, dalla ossessiva ripetizione di azioni, gesti e frasi, nelle “lezioni” in cui vengono ripresi diversi “luoghi comuni” (senza alcuna accezione negativa) della vita scolastica: le tabelline, le Idi di Marzo, la decapitazione di Capeto, le declinazioni, talvolta ripetuti ciclicamente oppure declamati a gran voce dalla classe. L’avvicendarsi contemporaneo di figure come quella della donna delle pulizie – un donnone che sventola la scopa – e di elementi scenografici come un sedile grigio, usato come bagno, e una culla vuota meccanica che dondola compulsivamente; l’oscillare continuo tra la vita e la morte – soprattutto nella scena in cui vi è la recita dei nomi dei defunti – ci fornisce, alla fine, la rappresentazione di “un mondo perduto, morto, sepolto nella memoria, che si trasforma in un trepidante, violento, commovente inno alla vita; una vita tutta ormai vissuta che ritorna nella sua pienezza solo a patto di fare i conti con il nulla della morte”.

Contesto in cui si rivela vincente la scelta di attori con un siffatto background biografico, gli unici, a detta di Garella, in grado di mettere in scena un autore come Kantor: “I miei performer sono gli unici in grado di interpretare appieno l’essenza del messaggio di “La classe morta”. Per loro, l’insorgere dei disturbi psichici ha significato l’interruzione di un percorso fatto di speranze, di sogni, di studio e di lavoro, di relazioni familiari e con il mondo esterno. Il loro sguardo sul passato è diverso, mostrano una percezione della realtà che mette in discussione, come nessun altro sarebbe in grado di fare, molte inclinazioni dei nostri tempi.”
Una performance salutata con un applauso lungo diversi minuti.