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Napoli Teatro Festival 2013: Peter Brook incontra gli studenti napoletani, aspettando “Lo Spopolatore” di Beckett

Il regista Peter Brook

Il regista Peter Brook

di Stefano Santos

Nel suggestivo scenario della Sala degli Angeli, presso l’Università Suor Orsola Benincasa, martedì 28 maggio alle ore 12, si è svolto l’incontro, nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia, del regista teatrale Peter Brook con il pubblico di Napoli e gli studenti dell’Istituto, che hanno affollato la sala ben prima dell’arrivo dell’artista, preceduto da un suo videomessaggio, indirizzato a suo tempo al Teatro Valle Occupato e in cui sono stati anticipati dei nuclei tematici del dibattito.
Al suo arrivo è stato introdotto prima dal Rettore dell’Università Lucio D’Alessandro, poi dal direttore artistico della rassegna Luca de Fusco, che ha definito l’incontro “uno dei giorni più belli del Napoli Teatro Festival” e che ha fatto un veloce ritratto artistico del regista, esaltandone lo stile sobrio e essenziale, che esalta il contributo fondamentale dell’attore, ponendolo di nuovo al centro della scena e al tempo stesso mette in secondo piano la personalità del regista, troppo spesso preoccupato a mettere “segni” del suo ego nelle suo opere.

Dopo la presentazione, è incominciata la sequenza di domande e spunti di riflessione portati dal pubblico. I quali però non potevano riguardare specificatamente lo spettacolo, “Lo Spopolatore” di Samuel Beckett che sarà messo in scena – in prima mondiale – al Teatro Sannazzaro, dal 6 al 9 giugno.

Toccato dalle domande del pubblico, Brook ha sviluppato su diverse direttrici le sue idee riguardo al teatro. Sul rapporto tra vita e teatro, su come quest’ultimo non sia estraneo al primo, parlando di una “concentrazione” – termine che ricorrerà spesso nel discorso – sia spaziale che temporale, di una messa a fuoco che renda limpida l’immagina. E per raggiungervi, bisogna rimuovere il superfluo, esprimere l’essenziale nel minor tempo possibile, facendo economia di tempo. Riguardo ai ragionamenti, che si interrogano sulle direzioni future che sta prendendo il teatro contemporaneo, definiti astratti tanto quanto domandarsi sul futuro del cibo.

Sui molteplici gradi di qualità che possono assumere le attività umane, tra i quali, all’ultimo grado, vi è il banale, la stupidità, l’energia che fa solo rumore – i politici, attori che possono essere seguiti solo facendo tanto rumore – mentre in teatro, le persone percepiscono insieme il silenzio che tocca tutti. Il suo voler rifuggire dal parlare della semplicità, per il pericolo implicito che essa possa essere vista come un segreto, come un metodo da seguire per giungere allo scopo – rivolto a un ragazzo – , esortando invece a seguire il proprio istinto, il proprio sentire.

Dalla domanda di uno spettatore, su come si potesse conciliare il “silenzio” del suo teatro e Napoli, città caotica e rumorosa, l’impiego di temi profondi per collegare il basso – il rumore, l’isteria – con l’alto – il cielo sopra Vesuvio. Infine, l’idea del pubblico come momento in cui le persone si riuniscono spontaneamente, senza conflitto ha terminato l’incontro.