Home » Editoriali ed elzeviri, News, Politica » Processi spettacolo e la spettacolarizzazione dei processi

Processi spettacolo e la spettacolarizzazione dei processi

processo_eternitdi Ruben M. Correra

Nella storia delle civiltà il ruolo del processo contro il reo, o più in generale contro il deviante – ossia colui il quale infrange le norme della società, siano esse regolate o meno dalla legge – ha rappresentato uno strumento fondamentale per la preservazione dell’ordine sociale in sé. Varie tipologie di tribunali, con punizioni più o meno esemplari e spesso pubblicamente eseguite, hanno garantito la resilienza della società di appartenenza e dei valori caratterizzanti contro i comportamenti devianti di individui più o meno isolati. Sull’argomento sono stati compiuti innumerevoli studi, tra cui uno dei più conosciuti è quello del sociologo Durkheim, il quale si focalizzò sul ruolo della devianza sociale e sull’importanza della “punizione” come mezzo attraverso cui la società contrasta l’apparizione della devianza e riafferma la propria unità valoriale.
Senza voler andare ad analizzare eventi lontani nel tempo, basti pensare ai processi-spettacolo utilizzati durante il Novecento – principalmente dai regimi dittatoriali, ma anche degli Stati Uniti durante il periodo maccartista – per riaffermare la propria “unità nazionale” in momenti di crisi politica e mostrare in questo modo chi fossero i “nemici” interni, ossia i devianti (o deviazionisti) che minacciano la stabilità del sistema. La funzione principale di questo tipo di processi è sostanzialmente sempre la stessa, mutatis mutandis, dei processi dell’Inquisizione o altre forme di pubblica punizione dei devianti: dimostrare che il deviante sarà punito, riaffermando in questo modo i “valori corretti” che devono essere condivisi dal corpo sociale.

foto_x_tribunale2La spettacolarizzazione
dei processi

La grande diffusione dei mass media nel corso della seconda metà del Novecento teoricamente ha contribuito al contribuito, almeno all’inizio, a questo processo di controllo della devianza; ma, nel corso degli ultimi decenni si è andati incontro al processo opposto. L’ingresso sempre più massiccio delle telecamere nei tribunali ha generato una serie di effetti collaterali sempre più gravi e lesivi per la gestione della stabilità sociale, che si avvia in modo sempre più rapido verso l’anomia – ossia la mancanza di valori condivisi – o quantomeno verso la scomparsa di molti valori positivi. Volendo tagliare con l’accetta, gli effetti collaterali della spettacolarizzazione dei processi sono riassumibili nell’eccessiva semplificazione delle materie giuridiche, nella perdita di senso sociale della punizione del deviante[1] (sempre più spesso trasformato da esempio negativo a modello) e, soprattutto, nella progressiva perdita della funzione di “rafforzamento sociale” del processo. L’eccessiva mole di informazioni superficiali e di attenzione su aspetti “esterni” alla questione giuridica in sé fanno si che l’effetto sociale finale sia quasi nullo, o in taluni casi negativo – con l’esaltazione della figura del deviante.

Analizzando nello specifico il caso italiano, spesso spazi di informazione e dibattito televisivo (ma non solo) trasformano processi di varia gravità (e ordinamento) in veri e propri spettacoli mediatici che nulla hanno a che fare con la realtà socio-normativa del reato giudicato, e che anzi in molti casi  gettano ombre (immotivate) sul ruolo e sull’imparzialità dei tribunali e dei magistrati.
Inoltre, la morbosa attenzione su determinati casi generata da questi para-processi mediatici produce effetti sulla società radicalmente contrari a quelli che – quantomeno in teoria – il processo dovrebbe ottenere sulla società: non solo la devianza non è unanimemente condannata, ma è anzi spesso acclamata, e i devianti assurgono al livello di personaggi mediati, acclamati ed approvati da parti della società. Qual’è il risultato di questa situazione? Lo abbiamo davanti agli occhi tutti i giorni. La legge è sempre più ampiamente percepita come un ostacolo alla realizzazione individuale (egoistica) nell’ambito del modello di capitalismo neoliberista contemporaneo, che premia solo coloro i quali hanno “successo”, senza porre alcun accento negativo sui metodi con cui questo successo deve essere raggiunto – non importa se i metodi ed i mezzi sono illegali e basati sulla prevaricazione dell’altro. La classe politica italiana non offre a tal proposito un esempio da seguire, anzi rappresenta un perfetto case study di come la legge sia percepita in modo sempre più aleatorio e negativo, piuttosto che positivo; un numero rilevante di politici, a vari livelli della “gerarchia”, è indagato o condannato per vari tipi di reati che – in condizioni normali – avrebbero dovuto precluderne in modo definitivo la carriera politica (tra cui associazione a delinquere, corruzione, concussione, e così via). Comportamenti similari si diffondono a macchia d’olio nella società, favoriti dalla sempre più diffusa assenza di senso critico da parte del cittadino medio, il quale è pronto ad accettare come “verità rivelate” quello che viene detto dai mass media, anche informazioni contraddittorie a distanza di breve tempo.

Alcuni giorni fa, un mio vecchio amico ha sentenziato che questa situazione assomiglia in modo sempre più impressionate all’angosciante realtà descritta da Orwell nel suo “1984” – in particolare il “Ministero della Verità”. Non ho potuto che dargli pienamente ragione.

 


[1]    Da questo punto in poi con la parola deviante si intende principalmente – se non unicamente – il deviante inteso nella sua accezione negativa di colui che infrange le norme sociali comunemente definite; non si fa riferimento in questo articolo ai “devianti innovatori”, ossia coloro che attraverso la loro devianza introducono nuove norme sociali “positive”.