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Piovono lacrime a Cannes: “Like Father, Like Son” in odore di Palma d’oro

urldi Marco Chiappetta

CANNES – Di film necessari ne escono massimo tre o quattro l’anno. “Like Father, Like Son”, titolo inglese per “Soshite chichi ni naru” (cioè, tale padre tale figlio), è uno di questi rari eventi che il cinema consacra alla vita: quella che sa raccontare, con grazia e delicatezza tipicamente giapponesi, Hirokazu Kore-eda. Il dramma alla base del film è dei più semplici: uno scambio di bebè nelle culle dell’ospedale. Ryota Nonomiya (Masaharu Fukuyama), architetto ambizioso e sempre occupatissimo, ha costruito con la moglie Midori (Machiko Ono) e il figlio di sei anni, una vita da sogno, ma molto materiale e con poco tempo e cura per gli affetti. La rivoluzione avviene quando i coniugi vengono informati dall’ospedale che il giorno della nascita del bambino c’è stato uno scambio di neonati nelle culle, a opera di un’infermiera frustrata in vena di vendette sociali, e il test del dna conferma che quello non è il frutto della loro unione. Il loro bambino naturale è nel frattempo cresciuto, con affetto ma con pochi mezzi, dal povero bottegaio Yudai (Lily Franky) e sua moglie Yukari (Yoho Maki), insieme con altri due figli. Insieme all’ospedale, lavorano per aggiustare la difficilissima situazione: i figli ritorneranno ai rispettivi genitori naturali, dopo che le due famiglie hanno passato del tempo assieme. Ed è qui la domanda del film: un legame di sangue è più importante che un legame affettivo? È meglio essere un cattivo padre naturale o un padre affettuoso? Una scelta atroce che cambia drasticamente la vita: come dire addio a un figlio, e prenderne un altro in cambio? I figli non sono compravendita, anche se Ryota crede di poter acquistare addirittura il figlio dell’altro, umiliandone la sua unica ricchezza, la dignità, siccome nella sua vita avida di affetto e ambiziosa sino al midollo il soldo è la sua misura per le cose. Scopriamo che Ryota ha avuto un alterco col padre che li ha resi lontani e inconciliabili, e che la colpa paterna ora è diventata la sua, che pure ignora il figlio, quando non lo vizia o lo costringe a una forzata ambizione per diventare migliore di lui, cioè più solo e indifferente. Mentre il suo pari, il povero, ignorante, squallido forse, eppure generoso e amabile Yudai con pochi soldi e infinito amore ha garantito alla famiglia una vita felice. Un dialogo del film è particolarmente memorabile, quando i due padri in una conversazione rivelano se stessi:

“Ryota: Solo il tempo conta.
Yudai: Sciocchezze! Il tempo conta solo per i figli.
Ryota: Ho un lavoro nel quale non posso essere rimpiazzato.
Yudai: Ma nessuno può rimpiazzarti come padre”

Il figlio naturale di Yudai si adatta subito alla nuova famiglia, calda e giocosa, e già non chiama più papà e mamma coloro i quali l’hanno cresciuto. Quanto a Ryota, non sa gestire né amare a sufficienza nemmeno questo nuovo figlio, che pure gli dovrebbe assomigliare: e che dolore quando, oltre a non chiamarlo papà e a fuggire di casa per andare dalla sua “vera” famiglia, il nuovo bimbo esprime sotto una stella cadente il desiderio di riavere i “propri” genitori. Attraverso la sofferenza, l’assenza, la nostalgia per un figlio che ha cresciuto per anni e che ora vive altrove, amato davvero e senza limiti di tempo da veri genitori, Ryoka capisce di essere stato un padre negligente, inesistente, tutto concentrato sul lavoro e mai su un figlio dato per scontato come fosse un oggetto qualsiasi del suo bel loft in centro città. Lo capisce con lacrime lente e pesanti, che noi spettatori condividiamo, semplicemente riguardando sulla macchina fotografica alcuni momenti di vita immortalati ed eloquenti, momenti pieni di gioia passati insieme, ma anche le fotografie di lui sempre preso con progetti e carte di lavoro, le fotografie che un figlio affettuoso e esigente gli scattava di notte mentre dormiva. Scopre così, come molti personaggi in molti film di molte epoche diverse, il senso della sua vita e un pentimento per cui c’è ancora redenzione. Questo viaggio dentro di sé, alla riscoperta dei valori della famiglia e del ruolo di padre, è reso con una maestria commovente e assolutamente naturale, che certo non si vede sempre, nonostante questo tema sia uno dei più facili e abusati (vedi il 90% delle commedie per famiglie). Il regista lavora sugli opposti speculari: ricchi e poveri, valori materiali o umani, famiglia e lavoro, praticità razionale dell’alta società ed epicureismo piccolo-borghese. Trovando una conciliazione all’interno stesso dei personaggi, e dentro un dramma davvero invivibile, il film è di una straordinaria efficienza narrativa e psicologica, una grande potenza evocativa grazie ai sottofondi di piano (molto Bach) e ad attori eccezionali. La pietà, la partecipazione, l’amore dello spettatore sono totali: tutto alla fine si risolve, o sembra risolversi, spazzando via tutto il dolore precedente, delle scelte e dei rimpianti, con un sorriso agrodolce. È un film molto doloroso, spontaneamente struggente, eppure così pieno di vita e di gioia, così umano e assolutamente diretto, così magnifico e profondo, che sembra la vita allo specchio, pardon, schermo. Un’opera dal valore morale e artistico immenso, che parlando di affetti, educazioni, famiglie, padri e figli, infanzia e passaggio all’età adulta,  è universale e universalmente emozionante. Senza vie di scampo, senza furberie strappalacrime, arriva a tutti perché tutti vi si ritrovino. È un film che sicuramente piacerà al presidente della giuria Steven Spielberg, sensibile a certi temi e certi stili, e che merita la Palma d’oro e qualsiasi riconoscimento possibile.

Il regista Hirokazu Kore-eda (al centro) con il cast di "Like Father, Like Son"

Il regista Hirokazu Kore-eda (al centro) con il cast di “Like Father, Like Son”