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Diritto di voto, storia e trasformazioni: da Locke a Schlesinger

rdbimg20091022_11388780_0di Attilio Greco

Si sente un gran parlare dell’importanza del voto al concludersi di queste elezioni. E’ giustamente considerato uno dei diritti politici più importanti in assoluto, cardine fondante delle moderne democrazie insieme alla libertà di parola e alla libertà individuale. E’ un diritto antichissimo, frutto di compromessi e battaglie politiche avvenuti in varie epoche. Basti pensare che una delle prime testimonianze in tal senso è riconducibile allo scontro, databile intorno al 287 a.C., nella Roma antica tra plebei e patrizi. Un diritto già presente nell’antichità dunque, a Roma come ad Atene, e che ha attraversato i secoli, mutando insieme ai regimi politici e alle modificazioni della società. E’ con l’Illuminismo e con la Rivoluzione inglese del XVII secolo, insieme all’apporto di pensatori come Locke, Hobbes e Montesquieu, che il diritto di voto ha lentamente assunto la fisionomia che oggi conosciamo. Ed è la Rivoluzione americana che ne sancisce il valore di diritto politico sulla base del principio, ancor oggi valido, del “no taxation without representation”, secondo cui non può esservi alcuna forma di tassazione legittima se chi è appunto sottoposto a tassazione, non ha la contemporanea facoltà di influenzare le scelte politiche ed economiche di chi amministra per mezzo del diritto di voto. Da lì in poi esso è stato gradualmente esteso, prima sulla base del censo e poi, a fasce sempre più ampie di popolazione, attraverso il suffragio universale maschile per giungere infine, nel XX secolo, con il suffragio universale femminile. Oggi la Costituzione italiana, come tutte le altre, ammette il diritto di voto come dovere civico, da esplicarsi liberamente e segretamente ed avente uguale valore. Rimettendo alla legge il compito di disciplinarne l’esercizio per ciò che concerne le elezioni amministrative, regionali, politiche ed europee. Eppure sembra che la sua storia non finisca qui, che esso possa ancora cambiare, se è vero che da più parti giungono numerosi voci che vorrebbero tale diritto esteso anche a favore di cittadini non italiani ma residenti comunque nel Paese. Una proposta che trovò nel 2008 una voce eccellente, quella dell’allora Presidente della Camera Fini, bersagliato poi proprio per queste sue opinioni da alcuni membri della sua stessa formazione politica, che lo accusarono di bestemmie ed empietà. Eppure l’Italia non sarebbe certo da sola se decidesse di estendere quel diritto di voto anche a cittadini non italiani. In Francia e Inghilterra è infatti già realtà. D’altra parte, chi è a favore di tali ipotesi sostiene che proprio il principio “no taxation without representation” sarebbe la base da cui ottenere tale riconoscimento: imporre a cittadini non italiani ma residenti in Italia, e quivi lavoratori, di pagare le tasse, subire la legislazione italiana in materia di lavoro e sanità, senza che essi possano intervenire attraverso il voto per dire la propria, costituirebbe una grave limitazione alla vita democratica. Ovviamente questa è una proposta come un’altra e che, tuttavia, merita rispetto come tante altre, meritando quantomeno di essere discussa prima di essere tacciata di eresia. Perché comunque si parla di meccanismi politici fondamentali nella vita di milioni di persone e di un Paese che vive e cresce grazie ad essi. D’altra parte c’è anche chi, invece, sostiene che il diritto di voto possa anche essere soggetto a limitazioni. La Costituzione, infatti, lo annovera tra i diritti attinenti ai rapporti politici, relativi dunque al cittadino e frutto di un riconoscimento e di una concessione da parte dello stesso Stato democratico. In questo senso il diritto di voto è comunque anche un diritto di partecipazione importante al funzionamento dello Stato, esattamente come ad esempio l’accesso ai pubblici uffici, che è invece sottoposto a tutta una serie di limitazioni, come la selezione sulla base dei principi di trasparenza e meritocrazia. Alcuni, dunque, sostengono che anche l’accesso al diritto di voto potrebbe essere sottoposto a discrezione, sulla base di vari requisiti. Oppure che potrebbe anche essere sospeso se s’incorre in talune condanne penali, come già avviene nel caso dell’interdizione dai pubblici uffici. Eppure simili proposte si scontrerebbero contro altri principi, aventi già natura costituzionale, quali il riconoscimento indiscriminato dei diritti politici e l’impossibilità della loro revoca, sulla base che tale possibilità aprirebbe le porte a devastanti rischi di discriminazione, come la storia ha insegnato a proposito dell’esperienza dei regimi totalitari. Tuttavia c’è ancora chi sostiene che un simile diritto andrebbe “guadagnato”, anche se è difficile stabilire il come e il perché in modo equo e trasparente. Quali che siano le proposte e le relative critiche, comunque, è opportuno che a tale diritto, riconosciuto in via automatica, si accompagni una cultura ed una educazione alla democrazia e alla politica attive. E questo non può essere lo Stato ad insegnarle, ma la società da cui esso trae origine. Solo così può davvero realizzarsi l’auspicio dello storico americano Arthur Schlesinger Jr., secondo cui “se l’elettorato è bene informato, perché c’è libertà di parola e di dibattito, il consenso espresso con le schede non rappresenta una somma, ma il risultato di opinioni illuminate”. A tal proposito, per essere pignoli, sarebbe importante che anche in Italia, finalmente, vi fosse un’autentica indipendenza della stampa e dell’informazione tutta. Ma questa è un’altra storia. Per ora, ci si limita a votare.