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“Re della terra selvaggia”: il solito film indie americano, in odor di Oscar e di déjà vu

re-della-terra-selvaggia-poster-italiadi Marco Chiappetta

TRAMA: La piccola Hushpuppy (Quvenzhané Wallis) vede il mondo con stupore e con un’ingenua ignoranza, visto che vive felicemente in una specie di baraccopoli della Louisiana isolata dalla civiltà, Baththub (la Vasca), con il carnale padre Wink (Dwight Henry) e una comunità di uomini che si accontenta della natura, di arrangiarsi, di vivere selvaggiamente come animali. Ma il pericolo e l’attesa della catastrofe – un enorme uragano – costringe Hushpuppy e l’intera “tribù” a confrontarsi con i rischi di una terra non sempre benevola.
GIUDIZIO: Esordio alla regia del trentenne Benh Zeitlin, abbastanza sopravvalutato a giudicare dai premi (finora cinquanta, tra cui la Camera d’or a Cannes, nella sezione Un certain regard) e dalle assurde quattro nomination all’Oscar, è il solito film indie all’americana: gradevole, suggestivo, poetizzante, traballante e nervoso, impegnato nell’ecologia e nel dare un nuovo (?) sguardo sul mondo, attraverso gli occhi di una bambina e un mondo isolato alla deriva ma non più di quello civile. Inevitabile che piaccia, inutile discutere il talento del giovane regista, o la naturalezza degli attori non professionisti, ma un grande film dovrebbe dire anche qualcosa di nuovo. La ricerca di una madre (o, tra le righe, di Madre Natura, di un Dio), la figura del padre padrone, la gioia ingenua dell’infanzia, la meraviglia di una natura incontaminata, minacciata dalla catastrofe o dalla tecnologia, la potenza lirica delle musiche (composte dallo stesso regista e da Dan Romer) accompagnate a immagini sempre evocative, è tutta farina del sacco di Terence Malick e di quel “The Tree Of Life” che ha cambiato, quello sì, le regole del cinema, con una preghiera illuminata e struggente alla vita. E poi Kusturica e i suoi zingari, il rifiuto della civiltà di “The Village”, il vivere spartano e solitario de “L’isola” di Kim-Ki Duk, la lista di riferimenti è lunga. Nel film di Zeitlin, il lirico e l’insipido vanno a braccetto, perché da una storia accennata, spesso ambigua (gli enormi cinghiali che corrono ogni tanto chi sono e che vogliono?), deriva per forza di cose un ritmo altalenante. Certo, racconta un’America selvaggia di cui nessuno parla mai, ma la morale di fondo, in un finale che non risparmia la commozione, è che il padre insegna alla figlia ad essere “re delle terre selvagge”, che la natura va dominata, che quelli là fuori sono cattivi, che non bisogna piangere ma essere sempre forti. Pura filosofia yankee in un film conservatore quasi quanto “Lincoln”.
VOTO: 3/5