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“Les Misérables”, un moto rivoluzionario nel musical hollywoodiano

les-miserables-poster-italiano-middi Marco Chiappetta

TRAMA: 1815 – Dopo diciannove anni di prigionia per aver rubato un tozzo di pane, il detenuto Jean Valjean (Hugh Jackman) è rilasciato con la condizionale e il suo secondino Javert (Russell Crowe) gli promette che si rincontreranno ancora. Invece Jean fugge e peregrina, rinunciando alla sua identità per la libertà, e nel 1823, quando sotto altro nome è sindaco della cittadina di Montreuil, è riconosciuto casualmente da Javert e, non riuscendo a salvare la povera Fantine (Anne Hathaway), operaia in una sua fabbrica licenziata a sua insaputa, si prende cura della sua piccola Cosette (Isabelle Allen), prelevandola dalla custodia dei grotteschi locandieri Théradier (Sacha Baron Cohen, Helena Bonham Carter), e fugge dal nemico. Ma nel 1832, quando Parigi è sotto i moti rivoluzionari, mentre Cosette (Amanda Seyfried) si innamora ricambiata dell’idealista Marius (Eddie Redmayne), a spese della gelosa Eponime (Samantha Barks), i destini di Valjean e Javert si incrociano di nuovo.
GIUDIZIO: Tratto dal fortunato musical teatrale di Alain Boublil e Claude-Michel Schonberg, andato in scena la prima volta nel 1980 (in francese, poi dall’85 in inglese), e tratto a sua volta dal romanzo fiume di Victor Hugo, questo suo adattamento cinematografico è il frutto di un magistrale lavoro, non solo tecnico per la ricostruzione fedelissima dell’Ottocento francese (tra costumi, scenografie e trucchi strepitosi) più perfetto che in Gericault o Delacroix, ma soprattutto di regia e recitazione (con tempi, ritmi, sincronia, narrazione, psicologia da coordinare). Passa dalla pagina di Hugo allo schermo, attraverso il palcoscenico, con un risultato monumentale e ineccepibile, travolgente nelle sue due ore e mezza quasi solo cantate (prima novità), girate in presa diretta senza ricorso al playback (seconda novità): ciò che ne fa un musical per certi versi rivoluzionario, più vicino all’opera lirica che non a Broadway.
Nel cast, spontaneo ed emozionale, tra piacevoli sorprese (Russell Crowe canoro), rivelazioni (i giovani Amanda Seyfried, Eddie Redmayne e Samantha Barks) e conferme (Hugh Jackman one man show), spiccano tuttavia soprattutto i siparietti comico-grotteschi di Sacha Baron Cohen e Helena Bonham Carter (già insieme nel musical di Tim Burton “Sweeney Todd”) e l’illuminante voce e presenza, pur breve, di Anne Hathaway, forse il meglio del film. Che comunque, qua e là rischia di pagare la discontinuità della partitura musicale, tra momenti memorabili (l’inizio con “Look Down”, “I Dreamed A Dream”, “Master Of The House” e “One Day More” su tutti), anche scenograficamente, e altri più monotoni e di contorno; oltre a sacrificare, nella sua giusta e riuscita sintesi, qualche filo narrativo, psicologico o morale – che è il meno in un’opera sontuosa di puro spettacolo, caotico e non uniforme, esplosivo e colossale.
Insomma Tom Hooper, l’ultimo di una lunga fila di registi inglesi imprestati a Hollywood, con un film completamente diverso ma non meno rischioso rispetto a “Il discorso del re” che gli ha dato l’Oscar, mette a segno un altro bel colpo: è lui il vero anti-Spielberg di quest’anno? L’Academy gli ha negato la nomination alla regia, ma le otto candidature ricevute dal film promettono ricompense.
Postilla (polemica) finale: che senso ha doppiare i (pochissimi) dialoghi di un film al 95% cantato e già sottotitolato? Un vizio di analfabetismo ormai anacronistico, che la lobby dei doppiatori – che, si dirà, pur deve campare – propaga ad infinitum a un pubblico abituato alla banalità televisiva dove tutto è italianamente spiegato.
VOTO: 3,5/5