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“Lincoln”: il maestro Spielberg diventa professore di storia americana

lincolndi Marco Chiappetta

TRAMA: 1865 – Durante la guerra di Secessione, arrivata al quarto anno, Abraham Lincoln (Daniel Day-Lewis), 16° presidente degli Stati Uniti, si batte per far approvare in Parlamento il 13° emendamento della Costituzione che abolisce la schiabitù dei neri, argomento che ancora divide Nord e Sud. Nell’impresa gli danno man forte la moglie Mary Todd (Sally Field), il segretario di Stato William Seward (David Strathairn), il radicale repubblicano Thaddeus Stevens (Tommy Lee Jones) e l’intrepido giornalista W. N. Bilbo (James Spader).
GIUDIZIO: Più che un bio-pic sugli ultimi mesi di governo e di vita dell’amato presidente Lincoln, Spielberg mette in scena una storia corale della Storia statunitense: avrebbe potuto intitolarsi “America”, come la protagonista effettiva di due ore e mezza di lezione storica, democratica, patriottica, sulla scia della seconda parte di “Amistad” (1997) e la celebre arringa di Anthony Hopkins contro lo schiavismo.
Per essere un film di Spielberg, l’ovvia retorica americana e americanista, esaltata dalle note di John Williams, non manca; ma per essere un film di Spielberg, dunque magnificente, monumentale e cinematografico allo stato puro, il testo prende il sopravvento sull’immagine, la parola sostituisce il movimento, e nonostante le sfumature umane e vive che la sceneggiatura e il grande cast danno ai personaggi, questo kolossal parlato, molto didattico, non si toglie di dosso quell’aria di cronaca fedele e documentaria che i film storici e biografici hanno di natura.
Così l’epopea americana dell’arcinota pagina di storia è qui una messinscena teatrale, recitata alla perfezione, iconograficamente dettagliata (costumi e scenografie d’epoca, fotografia al lume di candela di Janusz Kaminski), drammaturgicamente oliata, ma emotivamente nulla e verbalmente prolissa per un non americano, che se non è l’ennesima propaganda all’acqua di rose, è il film di Spielberg più politicamente, storicamente ed esteticamente conservatore: che forse nulla toglie e nulla aggiunge al mito dell’America e al suo cinema, se non la performance strabiliante, ironica e tragica, di Daniel Day-Lewis, che come Lincoln appartiene alla Storia.
Che Spielberg sorvoli sulla sua morte e caduta, senza accennarvi se non oralmente, è in linea con un film che dimostra più che mostrare, e che se colpisce l’intelletto con la sua parlantina, non raggiunge il cuore di chi è abituato allo Spielberg poeta visivo.
Sul tema dello schiavismo “Lincoln” ne è la teoria, “Django Unchained” la pratica: l’uno il teatro, la parola; l’altro il cinema, l’immagine.
VOTO: 3/5