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“Frankenweenie”: la grandezza di un B-movie animato in 3D e bianconero

000000_B_ITA-IT_28x40.indddi Marco Chiappetta

TRAMA: Victor Frankenstein, introverso bambino di New Holland, cittadina americana di anonime casette a schiera color pastello, resta sconvolto dalla morte del suo cane Sparky, investito da un’auto, e sobillato dall’illuminato professor Rzykruski, tenta di riportarlo in vita esibendo la carcassa ai fulmini. L’esperimento riesce e Sparky, pur malconcio e rattoppato, è più vivo che mai: ma il segreto di Victor alla lunga si scopre, diffondendo il terrore nella bigotta comunità e invidia nei suoi compagni che intendono emularlo per il concorso di scienze.
GIUDIZIO: Remake del bello e omonimo corto che lo stesso Tim Burton, nel 1984 appena ventiseienne, realizzò per la Disney, ne è l’aggiornamento in lungometraggio: non solo la tecnica del 3D e quella ormai rodata dell’animazione in stop motion (già usata con successo in “Nightmare Before Christmas” e “La sposa cadavere”), e la riconferma anacronistica del bianconero, ma anche la maturità artistica raggiunta in trent’anni dal grande cineasta, nel frattempo divenuto iconografico e commerciale in senso buono, permettono a questa piccola grande storia di trovare respiro anche in un film di un’ora e mezza, narrativamente certo più ricco e sfumato, e in uno schermo che ne esalta la visionarietà. Vi si ritrovano i temi cari al regista, dalla solitudine del diverso all’idiozia della società, dalla morte (sempre tenera, umana) all’universo di mostri e incubi, dall’infanzia alla prigione familiare, ma anche – ed è qui la ricchezza nascosta del film – una parabola dell’America anni ’50, tra maccartisti e delatori, regime del sospetto e linciaggi popolari, spirito di competizione e grigiore dei sobborghi dalle case identiche: il professore intellettuale che viene licenziato perché ritenuto sovversivo, la folla che insegue il mostro e incendia il mulino come nel “Frankenstein” (1930) di James Whale, i compagni invidiosi che tradiscono e si scontrano, insomma i sottotesti non mancano in un film che dovrebbe essere per bambini. Permane lo spirito Disney, tra tenerezza e spettacolo facili, ma l’originalità di Burton si fa preponderante tra colpi di stile e riflessioni satiriche, il gusto postmoderno per la parodia e per la citazione, e il consueto divertito omaggio al suo immaginario macabro (horror Universal anni ’30, i film della Hammer, B-movies anni ’50, Tod Browning, Godzilla, Vincent Price, Ed Wood, Mary Shelley, Edgar Allan Poe, Batman, etc.): rievocando nell’animazione personale personaggi e situazioni della cultura della sua infanzia, Tim Burton ci fa vivere ancora un po’ della sua tristezza, dei suoi sogni di bambino. Candidato all’Oscar per il miglior film d’animazione: sarà la volta buona per Tim?
VOTO: 3,5/5