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“Django Unchained”: il mito Tarantino incontra il mito del West

Layout 1di Marco Chiappetta

TRAMA: 1858 – In Texas il dottor King Schultz (Christoph Waltz), dentista tedesco diventato prolifico cacciatore di taglie, libera lo schiavo nero Django (Jamie Foxx) per farne il suo socio nella caccia ai criminali più ricercati del sud, in cambio di aiutarlo a ritrovare sua moglie Broomhilda (Kerry Washington), schiava nella piantagione del perfido Calvin Candie (Leonardo DiCaprio).
GIUDIZIO: Al suo ottavo film Quentin Tarantino si dà alla rivisitazione del suo genere preferito, lo spaghetti western, che tutta la sua opera in modo più o meno velato aveva già citato o omaggiato: in mano a un Re Mida della celluloide persino un sottogenere di nicchia, che tanta critica ha snobbato e che tanto mondo fuori dalla madrepatria italiana continua a ignorare, diventa materia di magia, il mito del cinema, del western e di una certa America, di una certa poetica della violenza e di eroi che solo un film sa creare. Dalla creta avanzata da film rudi, banali, pur mitici, Tarantino plasma la materia dei sogni, ridando dignità al genere, e dissimulando con più originalità il solito ovvio gioco di citazioni e richiami alla sua enciclopedica cultura. Il suo, ben inteso, è solo un film, che sa di essere un film e nient’altro che un film: con quest’ottica, più che mai, si può godere di “Django Unchained” come un’opera di divertissement ma non solo, come un altro tassello di un cineasta innovativo e geniale, che a vent’anni da “Le iene” continua a stupire, che sa imitare bene e viene imitato male. Del “Django” (1966) di Sergio Corbucci, e della farlocca serie apocrifa che gli seguì, non resta che il titolo, il tema di Bacalov, l’ironico cameo di Franco Nero e qualche strizzatina d’occhio; è piuttosto dall’intero immaginario del western all’italiana, di scenari, personaggi, situazioni, musiche (Ennio Morricone e Luis Bacalov a volontà) che Tarantino attinge per una storia del suo universo, fatto di sicari e eroi della domenica, cattivi diabolici e vendette feroci, violenza spettacolare e dialoghi al limite dell’assurdo, riadattando la solita dialettica godardiana e il furore sanguinario di Leone, Peckinpah, Eastwood: quelli che hanno sporcato il mito del cowboy col sangue vero. Così come la Storia che, come in “Bastardi senza gloria”, è solo materiale pulp, da deformare a piacimento: qui lo schiavismo sostituisce il nazismo, ma la sostanza non cambia. Che vada preso solo per un’opera di finzione è il limite che Tarantino pone e che lo spettatore sa: ma persino gli anacronismi della musica, come la cavalcata e la sparatoria a ritmo rap, e dei costumi kitsch, sono talmente a loro agio nel delirio complessivo da risultare perfetti. Se Tarantino pecca in qualcosa è nel voler minimizzare, con modestia, la sua grande arte in una semplice exploitation, una sorta di B-movie mainstream, ma con cadute nel banale e nella farsa, che non sa risparmiarsi, e che non vale la pena rinfacciargli. Si può dibattere sull’utilità di un cinema così spiccatamente manierista e amorale, ma la ricchezza della regia, l’imprevedibile arguzia delle trovate, il personalissimo humour nero, la cura del dettaglio e delle sfumature, e la direzione degli interpreti (tra cui un fenomenale Leonardo DiCaprio, inedito e riuscitissimo cattivo), pongono Tarantino nell’olimpo dei più grandi.
Nel cast l’attore feticcio Samuel L. Jackson, il leggendario Don Johnson di “Miami Vice” e lo stesso Tarantino in un simpatico cameo.
VOTO: 4/5