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“The Master”: Anderson rilegge Scientology in un’opera oscura ma affascinante

TheMaster_locandinadi Marco Chiappetta

TRAMA: 1950 – Sciroccato, psicolabile e rissoso, il marinaio Freddie Quell (Joaquin Phoenix) si ritrova per caso su una nave dove fa il fatale incontro con il carismatico scrittore Lancaster Dodd (Philip Seymour Hoffman), sedicente capo di un movimento spiritual-filosofico chiamato The Cause, che, insieme con la moglie Peggy (Amy Adams) e una schiera di seguaci, diffonde pian piano in America finché questo non diventa un vero culto. Un incontro che scombussola ancora di più il disordine mentale e la fragilità emotiva di Freddie, che finisce ingabbiato in un duello sia contro se stesso che contro il suo padre e maestro.
GIUDIZIO: Al suo sesto film Paul Thomas Anderson rilegge sotto falso nome il culto di Scientology (rinominato prudentemente “The Cause”) e del suo fanatico fondatore L. R. Hubbard, e racconta il fenomeno dell’indottrinamento, il lavaggio del cervello, la metamorfosi da filosofia a religione, e soprattutto lo scontro violento, ipodermico o meno, tra psicologie umane, già al centro in un certo senso de “Il petroliere” ma con altri fini e altri mezzi. Il risultato è un’opera curiosa e curiosamente al di sotto delle ambizioni, oscura, anche pedante, ma di sicuro fascino cinematografico, e certo non per tutti. L’amalgama tra immagini e musica (di Jonny Greenwood, dei Radiohead) è disturbante quanto il contenuto, che non si rivela mai se non per tasselli spezzati, di violenza, follia, erotismo morboso, maniacalità, in una narrazione frammentaria, in dialoghi stralunati e in uno stile di regia, classico e magistrale, che conquista l’occhio ma spesso si dimentica di andare in profondità. Così che nel ritmo lento e dilatato da film d’autore, il senso si perde spesso in un ruminare verboso e mistico, e la giustificazione sembra essere solo nel formidabile duello di recitazione tra due mostri: al carisma candido, magnetico, sottilmente demoniaco di Philip Seymour Hoffman fa da contralto la follia incontenibile e imprevedibile di un Joaquin Phoenix che, sbilenco e squilibrato, marca la sua interpretazione più forte e memorabile. Del resto fotografia, scenografia, costumi, mania per il dettaglio, costruiscono un’altra apologia americana, meno incisiva e più elitaria, del più americano dei registi contemporanei: ma il grande, grandissimo film annunciato e atteso da anni non è pervenuto. Già premiato a Venezia (miglior regia e Coppa Volpi ai due attori), è in odore di vari Oscar che, per l’autore di capolavori come “Magnolia” e “Il petroliere”, sembrerebbe quasi una tardiva beffa.
VOTO: 3/5