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Elsa Fornero, la Thatcher buona che serviva all’Italia


di Gianmarco Botti
Nell’atmosfera malinconica di fine legislatura si inserisce bene la puntata de “L’Infedele” della settimana scorsa, l’ultima del popolare talk show condotto da Gad Lerner, che prende commiato dai telespettatori dopo dieci anni di trasmissione. Una sorta di commiato è stata anche la lunga intervista al ministro Elsa Fornero, certamente l’esponente più rappresentativo del governo tecnico che si avvia alle dimissioni. Un’intervista in cui la Fornero ha fatto un bilancio dei tredici mesi di vita del Governo Monti e della sua personale attività al ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, rivendicando i risultati ottenuti ed esprimendo le sue amarezze, senza dimenticare di togliersi qualche sassolino dalla scarpa: le incomprensioni con la leader della Cgil Susanna Camusso (presente in studio), le critiche a suo avviso ingiuste ricevute dalla sinistra radicale, l’irrisione di cui è stata oggetto per aver versato le celeberrime lacrime. Sì perché, come con cortese impudenza le ha ricordato l’intervistatore, Elsa Fornero è un ministro decisamente impopolare, forse il più impopolare di tutti. Sue sono le riforme più controverse varate dall’esecutivo (pensioni e mercato del lavoro), quelle che hanno inciso più in profondità nel corpo vivo della società, facendolo talvolta sanguinare e scatenando durissime reazioni nel mondo del lavoro, delle organizzazioni sindacali, dei giovani. Nel giro di un mese dal suo insediamento al ministero la professoressa torinese è diventata il “volto crudele” del governo di Mario Monti, più crudele di quello dello stesso presidente del Consiglio, già dipinto come un vampiro assetato di sangue; in lei si è riconosciuta la più compiuta incarnazione di una classe di tecnocrati indifferente al disagio sociale, incapace di sintonizzarsi con le esigenze di chi vive quotidianamente i drammi del precariato e della disoccupazione, tutta ripiegata nell’angusto spazio di dottrine accademiche che nulla hanno a che vedere con la realtà, perseguite con una coerenza ferrea al punto da rasentare la spietatezza. E allora ecco che anche le famose lacrime, in un primo momento accolte con corale ammirazione come il ritorno dell’umanità nei palazzi romani dopo la farsesca stagione berlusconiana, diventano agli occhi dei più lacrime di coccodrillo, una patetica esibizione di coscienza tardiva o magari addirittura una finzione pianificata a tavolino per indorare una pillola fin troppo amara. Una satira implacabile si accanisce su quelle lacrime e su ogni altra esternazione pubblica del ministro, in una caccia alla gaffe (reale o creata che sia) che ha dei precedenti solo negli anni del Governo Berlusconi, ma lì le gaffe era fin troppo facile trovarle: iene (quelle di Italia 1) e sciacalli di tutte le risme hanno trovato nella Fornero un bersaglio ideale, e perfino qualche vignettista di sinistra, che pure dovrebbe essere sensibile al tema della dignità della donna, si diverte a disegnare il ministro negli abiti succinti di una coniglietta di Playboy. E viene il dubbio che sia la carenza di argomenti ad ispirare la matita di chi forse si trovava più a proprio agio con altre “ministre”, più fotogeniche e decisamente più consone ad un certo genere di mise, e ora, di fronte all’incontestabile serietà della Fornero, non ha più niente da dire. Sulla serietà e sul rigore morale di Elsa Fornero, l’accademica e il ministro, non è infatti possibile discutere. Mettendo fra grandi parentesi l’importantissima e certamente molto complessa questione degli esodati, le critiche che le sono arrivate durante tutto quest’anno raramente sono entrate nel merito. Si è preferito attaccarsi alle parole, alla forma piuttosto che alla sostanza, al modo in cui dice le cose piuttosto che a ciò che dice; tutti ormai sanno cosa vuol dire in inglese la parola “choosy”, ma pochi saprebbero riportare i termini esatti del discorso in cui è stata pronunciata. E se il modo in cui dice le cose può certamente risultare irritante, con quel tono da professoressa scimmiottato a meraviglia da Germana Pasquero nel salotto della Dandini, se le sue uscite possono non piacere, non per questo si può parlare di gaffe. Sono idee – discutibili come tutte le idee – ma forse anche qualcosa di più: intollerabili. Intollerabili perché inaudite, intollerabili perché finora in Italia nessuno le aveva espresse con tanta forza e nettezza. La Fornero, insomma, non piace perché è aliena. Il suo curriculum è alieno in un Paese come l’Italia, dove i più vanno avanti a forza di raccomandazioni, dove chi arriva in alto ci arriva perché è figlio di, amico di, amante di; la figlia di famiglia operaia piemontese, che attraverso lo studio e le competenze è arrivata ai massimi livelli del mondo accademico e ancor più su fino al governo, rappresenta un affronto inaccettabile alle nostre certezze sul modo in cui “quelli là” (i politici e la classe dirigente dello Stato) fanno carriera; e allora la si odia perché contro di lei nulla si può dire, perché lei non è una delle “solite ministre” e i suoi meriti non sono i “soliti meriti” con cui queste si sono guadagnate la poltrona, ma anche perché ad essere sinceri quelle ministre piacevano di più, in loro ci si poteva identificare, perché se ci sono arrivate loro, senza avere particolari competenze, allora forse ci possono arrivare tutti. Elsa invece no, non è come tutti, in lei non ci si può identificare. La sua storia chiama in causa l’idea che ciascuno di noi ha di se stesso e delle proprie capacità, smuove le nostre facili pigrizie, annienta gli alibi e i convincimenti inconsciamente più consolidati (è inutile impegnarsi, tanto in questo Paese contano solo le raccomandazioni): per questo non la si sopporta. Anche le sue idee sono aliene per un Paese che in questo anno ha avuto il suo primo governo veramente liberale dai tempi dell’unificazione e della cosiddetta Destra Storica di cavouriana memoria. La storia della Prima Repubblica è stata dominata dalle tradizioni comunista e democratico-cristiana, da sempre in lotta fra loro ma unite nella comune avversione al liberalismo; la Seconda Repubblica è nata al grido di un’improrogabile “rivoluzione liberale”, che però nei fatti non c’è mai stata, e chi l’ha invocata lo ha fatto in maniera del tutto strumentale, senza avere neppure una vaga idea di cosa sia il vero liberalismo e di chi siano i veri liberali. Veri liberali, ancorché tecnici, si sono dimostrati invece Monti & Co., di un liberalismo del tutto estraneo alla tradizione politica italiana e in generale mediterranea, ma che affonda le sue radici nell’universo anglosassone. Riprendendo la metafora, si può dire che la coscienza comune degli italiani abbia vissuto il loro insediamento come una sorta di invasione aliena (“questo è il governo della Merkel, è il governo dell’Europa”, ma l’Italia, poi, non è forse Europa anche lei?); e in effetti la Fornero, ministro alieno di un governo alieno, sembra venuta da un altro pianeta, calata qui dalla Germania, o meglio ancora dalla Gran Bretagna: quel lontano, lontanissimo pianeta che fu la culla del moderno capitalismo industriale e finanziario, ma anche della prima embrionale idea di welfare state. È questo il mondo ideale da cui Elsa Fornero proviene e in cui si trova pienamente a suo agio, come dimostra già la sua predilezione per l’inglese, che utilizza spesso negli interventi pubblici (il famigerato “choosy”) e adotta come lingua ufficiale dei suoi corsi all’Università di Torino. Non stupisce quindi che molti osservatori, specie quelli più critici, abbiano usato il termine “thatcherismo” per qualificare le politiche della Fornero al ministero del Lavoro, intendendo con questo una gestione dei rapporti lavorativi e sindacali di stampo conservatore, del tutto estranea alla cultura di governo del nostro Paese; e che qualcuno si sia spinto fino a tracciare inquietanti paragoni personali con l’ex Primo Ministro britannico. Inquietanti perché, comunque la si pensi, la signora Thatcher è stata in tutta la sua carriera politica, prima da leader del Partito Conservatore, poi da capo del governo fra il 1979 e il 1990, la più fiera avversaria dello stato sociale nel mondo occidentale, a pari merito con il presidente USA Ronald Reagan; e “una Thatcher” al ministero del Welfare sarebbe poco meno pericolosa di un Richard Nixon al ministero della Giustizia.
thatcher_784x0Ma questi paragoni reggono davvero? A prima vista sembrerebbe di sì: entrambe si sono fatte da sé, sono self-made women, partite da origini umili (la Thatcher era figlia del droghiere, nonché sindaco, dello sperduto villaggio di Grantham) e arrivate in cima spinte dalla sola forza della loro volontà e determinazione; modi spicci, piglio decisionista, entrambe hanno costruito la loro figura pubblica sul rifiuto dei cliché sul gentil sesso, presentandosi come più “maschie” dei maschi e rifiutando il riferimento enfatico alla loro identità di genere (l’italiana Elsa preferisce essere chiamata “il ministro Fornero” piuttosto che “la Fornero”, mentre tutti ricordano il vecchio adagio della signora Thatcher, per cui “essere potenti è come essere una donna: se hai bisogno di dimostrarlo vuol dire che non lo sei”). E ancora, sul piano più squisitamente politico, le uniscono la fede nel libero mercato, la difesa del valore del merito, i rapporti difficili (per la Thatcher è davvero un eufemismo) col mondo sindacale. Ma basta questo a fare di “Elsa la tosta” una nuova Lady di ferro, una donna di destra liberista più che liberale, l’esponente di un mondo e di una cultura che non hanno niente a che vedere col nostro Paese e la sua storia? Tanto per cominciare, è tutto da dimostrare che la Fornero sia di destra. Certo non è una “laburista”, ma neanche le si può facilmente dare della “tory”, se si considera che negli anni ’90 è stata per un quinquennio consigliere comunale a Torino, eletta in una lista civica a sostegno del candidato di centro-sinistra Valentino Castellani. Le sue riforme obbediscono all’impostazione pragmatica che è la cifra di questo governo tecnico, più interessato a come si fanno le cose (nel rispetto della disciplina di bilancio e dei saldi) che a cosa si fa, che è invece ciò che attiene prettamente alla politica; pragmatica e non ideologica, come invece fu sempre la signora Thatcher, vestale del credo neoliberista e monetarista imperante negli anni ’80, la Fornero ha sì delle idee, ma non ne ha fatto un’ideologia, un sistema di pensiero che si presume valido sempre e in assoluto. La Fornero è entrata spesso in conflitto col sindacato, ma non ha il potere, né certamente l’intenzione, di distruggerlo, come ha invece fatto, letteralmente, il Primo Ministro Thatcher, e i minatori gallesi sono ancora lì a leccarsi le ferite (va anche detto che allora le Trade Unions inglesi, quanto a potere corporativo, non avevano niente a che vedere con la Cgil). È vero che la Fornero non tiene a fare della femminilità un elemento caratterizzante del suo ruolo pubblico, ma non per questo non è una femminista, anzi, forse lo è proprio per questo; come spiegare diversamente il suo risentimento all’indomani della pubblicazione della famosa vignetta, da lei definita “vergognosa e maschilista”? Un risentimento doveroso per un ministro che fra l’altro è anche il titolare delle Pari Opportunità. Della Thatcher, invece, si ricorda una sentenza categorica: “Non devo nulla al movimento femminista”. E ancora, ve la immaginate la Lady di ferro che scoppia in lacrime nel tentativo di pronunciare la parola “sacrifici”? Maggie Thatcher non piange, o se lo fa lo fa soltanto al momento di lasciare il suo incarico, di perdere quel potere che è tutto per lei, quando dopo undici anni di governo si ritrova praticamente sfiduciata dal suo stesso partito, costretta ad un addio che non avrebbe mai voluto sulla porta di Downing Street. Maggie Thatcher è quella che a nove anni di età alla cerimonia di consegna di un premio scolastico dà una precocissima prova di quella sicurezza in se stessa, ad un passo dalla presunzione, che l’accompagnerà per tutta la vita: “Non sono stata fortunata. Me lo meritavo”. Non così Elsa Fornero, la diciassettenne dal “sorriso molto dolce e occhi verdi scuri che riflettono la sua modestia” (ben diversi da quegli “occhi di Caligola” che François Mitterand attribuiva al Primo Ministro inglese) che fa capolino dall’archivio del quotidiano torinese La Stampa, vincitrice anche lei di un premio per gli ottimi voti scolastici, ma decisamente meno spocchiosa, anzi, quasi imbarazzata: “Non credo di meritare tutte queste attenzioni”. La Fornero dunque non è la Thatcher, o almeno non è quella Thatcher lì, è una Thatcher più buona, una Thatcher all’italiana. Ci è estranea, ma fino a un certo punto. Nel corso di quest’anno e da ultimo anche nello studio di Lerner l’altra sera, le è stato rimproverato di voler educare gli italiani, di comportarsi come quelle “maestrine” che cocciutamente cercano di far entrare le loro nozioni e teorie nella testa di un alunno che proprio non ne vuol sapere. E a noi non piacciono le maestrine, noi italiani amiamo le mamme, buone e comprensive, sempre pronte a incoraggiarci e approvarci, anche nei nostri errori; siamo cresciuti con mamma Dc, che per quasi cinquant’anni ha retto le sorti del Paese e, fra i tanti meriti, qualche errore educativo pure l’ha commesso, se è vero che ci ha lasciato un debito pubblico spaventoso e un sistema di politiche sociali fatto di puro assistenzialismo. Anche la Fornero è una mamma, ma non la classica mamma italiana: è la madre severa, che mette in guardia i figli dall’essere troppo “schizzinosi” e “viziatelli”, perché se no faranno fatica a trovare il loro posto nel mondo; è la madre esigente, che abbracciando il giovane col posto fisso, premia il figlio bravo, quello che ce l’ha fatta perché ha avuto il coraggio di crescere e di impegnarsi per i propri obiettivi. È la madre che educa, anche con durezza, anche se questo significa perdere l’approvazione dei figli e diventare ai loro occhi la “mamma cattiva”. Ma forse noi italiani abbiamo bisogno di essere un po’ educati, dopo essere stati blanditi per troppi anni.