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“Una famiglia perfetta”, Genovese si interroga sulla realtà e la finzione della vita

di Giulia Battinelli

Dopo il dittico cinematografico “Immaturi”, l’ultima fatica di Paolo Genovese,”Una famiglia perfetta”, appare come un film ancora una volta giocato sullo stravolgimento di un avvenimento comune a tutti, da tutti atteso e che sempre si ripete uguale: l’esame di maturità nel primo, il giorno di Natale nell’altro.
Tanti i temi affrontati e tante le domande poste al pubblico. La prima traspare dal titolo: esiste la famiglia perfetta? Attraverso un rocambolesco scambio di ruoli, un mare di vicissitudini e colpi di scena inaspettati e insospettati, Paolo Genovese sembra rispondere: non esiste. E’ questo un tema noto alla cultura italiana da sempre: lei, la famiglia, quella che in Italia più che altrove è sotto i riflettori, lei che è inorridita e al tempo stesso elettrizzata dai suoi stessi cambiamenti. E’ una famiglia che sfila da cent’anni e più sul red carpet, abituata ai palcoscenici, ma che in questo film si scopre completamente piazzata su un palcoscenico, come una statua sul suo basamento di marmo. I sipari si alzano e si abbassano, a volte crollano, ma la bravura dei familiari-attori, la loro capacità d’improvvisazione, riesce sempre a rialzare il sipario e a continuare la commedia all’unisono grido di “the show must go on”. Paolo Genovese fa riflettere sulla realtà, su quanto sia strettamente inviluppata nella finzione e – cosa più assurda – su quanto questo avvenga nel luogo che dovrebbe essere il più naturale, dove ci si dovrebbe sentire “a casa”. La “home sweet home” è in questo caso ribaltata in un teatro, amaro palcoscenico di una vita costruita a tavolino, curata nei minimi dettagli, in cui nulla è vero – perfino la casa, che come si scoprirà alla fine è stata fittata -, recitata sulla scorta di un copione che non accetta errori, non accetta ripensamenti: la famiglia “deve” essere perfetta.
“Una famiglia perfetta” non riflette solo sul ruolo della famiglia, ma anche sulla recitazione. Il cinema diventa un “meta-cinema”, nel quale gli attori si interrogano sul proprio ruolo: c’è chi è disposto ad entrare nel Grande Fratello perché non conta il mezzo, ma il risultato col quale si consegue il successo (Pietro, interpretato da Eugenio Franceschini); c’è poi chi crede che la recitazione sia la vita ed è per questo che deve accettare che il mestiere di attore sia pieno di imprecisioni e imprevisti proprio quanto la vita (Luna, il personaggio di Eugenia Costantini). La morale sembra essere che è difficile accettarlo, ma laddove avviene questa presa di coscienza, la recitazione può prendere il suo giusto verso. Ed è proprio qui la simbiosi: la recitazione degli attori svela quale sia il senso della vita a Leone (Sergio Castellitto) e la vita che lui cerca e da cui fugge svela agli attori quale sia il senso del loro recitare. Il prezzo da pagare è un’ospite terrorizzata dalla famiglia in cui si trova per caso, un suicidio nella vigilia di Natale finto quanto il resto, due bambini con vite opposte che per due giorni giocano a vivere insieme, due ragazzi con speranze comuni e idee diverse che si scoprono innamorati. Tutto questo giocato su una bellissima trama in cui i fili della tela s’incrociano e si scrociano in un ricco crocevia d’emozioni. Un cast sapientemente studiato con un eccellente Sergio Castellitto e un Marco Giallini sua degna spalla, con l’esordiente Eugenio Franceschini che supera appieno la prova; non minori le presenze femminili di Ilaria Occhini, Claudia Gerini, Carolina Crescentini e l’esordiente Eugenia Costantini.