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Pierluigi e Matteo divisi a Napoli. Ma il ticket fa già sognare

Pierluigi Bersani al Teatro Politeama di Napoli. A destra, Nichi Vendola

di Gianmarco Botti

Si potrà ironizzare dicendo che per una volta Pierluigi Bersani e Matteo Renzi hanno avuto la stessa idea. Sta di fatto che in quest’ultima cruciale settimana di campagna elettorale prima del ballottaggio, Napoli era una tappa ineludibile per i due aspiranti premier del centro-sinistra. La “capitale del Mezzogiorno” era la cornice ideale per lanciare l’ultimo messaggio al Sud e al suo vastissimo elettorato prima del voto decisivo: un messaggio di gratitudine, quello del segretario democratico, che domenica scorsa ha fatto il pieno di voti nelle regioni meridionali e che oggi spera di chiudere col botto soprattutto grazie a loro; un appello alla riscossa, quello del sindaco di Firenze, che punta ad invertire la tendenza che lo ha visto nettamente in svantaggio nel Sud, perché senza il Sud non si vince. Due giornate piovose per una città che vive di sole hanno accolto Pierluigi Bersani (giovedì sera) e Matteo Renzi (venerdì a mezzogiorno), ma neanche la pioggia ha potuto impedire che si ripetesse quel miracolo della partecipazione che è la cifra più autentica di queste primarie. Sale piene per i due teatri che hanno ospitato i candidati, il Politeama per Bersani e il Sannazaro per Renzi: platee assai differenti, più istituzionale quella di Bersani, con tanto di notabili locali come Bassolino e Cozzolino (seppur opportunamente defilati), di rappresentanti della FIOM e bandiere di partito, più informale quella di Renzi, nello stile “post-ideologico” e quasi “post-partitico” che ha caratterizzato la sua campagna, tutta tesa ad intercettare il voto di chi fino ad ora col Pd non ha avuto niente a che fare. Quasi una rappresentazione plastica, tale da risultare immediatamente evidente a qualsiasi osservatore, della differenza più volte ribadita, in forme e modi diversi da una parte e dall’altra, fra “noi” e “loro”. E così, anche a Napoli Bersani e Renzi non si sono risparmiati frecciate incrociate: sulle regole del voto in primo luogo, con il segretario che ha ricordato ancora una volta come le regole non si cambino in corso d’opera, e con il sindaco fiorentino che ha accusato l’establishment del partito di aver cercato di limitare la partecipazione escludendo dal ballottaggio chi si è iscritto dopo il primo turno; ma anche sui contenuti, e l’attacco più duro è venuto da parte di Nichi Vendola, al fianco di Bersani al Politeama per dargli l’endorsement di SEL, che ha puntato il dito contro il diabolico “liberismo” di cui sarebbe portatore Matteo Renzi. Le distanze i due leader le hanno volute marcare a partire dal linguaggio: a Bersani che ricordava a Renzi come non ci sia “merito senza uguaglianza”, il sindaco fiorentino il giorno dopo ha obiettato che “non c’è uguaglianza senza merito”. Apparentemente un’opposizione totale: Bersani il custode dei valori genuini della sinistra e della sua tradizione solidaristica di difesa dei più deboli, contro la cieca logica del mercato e le disuguaglianze sociali che essa genera; Renzi l’alfiere della nuova sinistra di stampo anglosassone, quella dei Democrats americani e del New Labour britannico, la sinistra del merito e della creatività, dello sviluppo competitivo e della libertà di distinguersi. Eppure, andando oltre il conflitto apparentemente insanabile fra le due asserzioni, si potrà scoprire in esso la natura illusoria di un gioco di parole puramente retorico e ci si accorgerà di come le distanze siano forse molto più di linguaggio che non di contenuti, di forma più che di sostanza. Chi se la sentirebbe in nome dell’uguaglianza di escludere il merito dal pantheon dei valori della sinistra o viceversa? Una sinistra senza uguaglianza certamente non è più sinistra, ma una sinistra che non faccia suo il valore del merito è condannata alla sterile difesa dell’esistente e quindi in definitiva all’ennesima forma di conservatorismo che di progressista non ha un bel niente. L’uguaglianza senza merito è egualitarismo, il merito senza uguaglianza dà vita al più feroce darwinismo sociale in cui inevitabilmente il forte finisce per schiacciare il debole. Nel Paese dei manicheismi e delle contrapposizioni forzate entrambi gli atteggiamenti, slegati l’uno dall’altro, hanno dato luogo a terribili disastri culturali e sociali ed è a questi che la sinistra che si candida a governare deve porre rimedio. Ecco perché, se queste primarie, come qualcuno immagina e qualcun altro addirittura si augura, dovessero concludersi con una scissione, con una resa alle differenze che pure caratterizzano l’idea di sinistra di cui sono portatori Bersani e Renzi, la partita delle primarie sarebbe totalmente persa, il progetto di governo fallito prima ancora di mettersi in piedi.

Matteo Renzi al Teatro Sannazzaro di Napoli

Il Partito Democratico non era forse nato con l’ambiziosa missione di mettere insieme, creando una sintesi, le differenti istanze rappresentate dai Ds e dalla Margherita, dai postcomunisti e dai cattolici, e, perché no, mettiamoci dentro adesso anche i socialdemocratici e i liberali? Se un merito va riconosciuto al sindaco fiorentino è quello di aver messo in moto una vivace dialettica democratica all’interno del Pd, offrendo ai sostenitori l’immagine di un partito più aperto, plurale, meno monolitico e ideologico che in passato. E anche se Renzi con ogni probabilità oggi perderà le primarie, ha già ottenuto la sua vittoria, che è proprio questa: mostrare che nel Pd possono convivere posizioni differenti senza che alcune di esse possano essere facilmente liquidate come idee estranee, “infiltrate” dall’esterno, inoculate come un virus pericoloso che rischia di far ammalare l’intero organismo. L’organismo del Pd esce più forte da queste primarie, rinvigorito da una bella prova di democrazia che è l’antidoto più efficace al disinteresse e all’antipolitica. Qualunque sia l’esito del voto, si tratta di non sprecare i benefici di questa esperienza, di non buttar via tutto ciò che si è così faticosamente costruito. In poche parole si tratta di dimostrare che queste posizioni diverse, che le primarie hanno messo in relazione dinamica fra loro, possono non solo coesistere all’interno del partito, ma anche armonizzarsi in un compiuto progetto di governo. Ecco perché non ci deve essere e non ci sarà nessuna scissione, nessun nuovo partito sorgerà dalle ceneri dell’esperienza renziana. Fino a che punto questa sia una scommessa possibile e anzi necessaria, l’ha dimostrato il momento in teoria più conflittuale di questa lunga avventura delle primarie: il dibattito di mercoledì scorso fra Bersani e Renzi ha rappresentato un’importante occasione di confronto a cui l’Italia è forse poco abituata, ma al di là del format televisivo tanto simile a un duello, al di là delle tante opinioni diverse espresse dai due candidati in merito a specifici argomenti, il quadro d’insieme che è venuto fuori è un quadro niente affatto conflittuale, ricco certamente, di sintonia nella differenza. Non a caso la maggior parte dei commentatori ha convenuto che nel dibattito di mercoledì sera per la prima volta si è visto con chiarezza che i due sfidanti corrono per la leadership dello stesso partito, che la discordanza di vedute su alcuni temi non cancella l’unità di una proposta politica che può benissimo costituire un tutt’uno coerente, che se sia più importante il problema di Israele e della Palestina o quello dell’Iran integralista è questione di lana caprina. In quel momento l’Italia ha realizzato qualcosa che gran parte dell’Occidente ha sempre saputo: Barack Obama e Hillary Clinton, come avvenuto nel 2008, possono scannarsi quanto vogliono, ma poi alla fine, una volta che sia emerso un vincitore, sapranno ritrovare quell’unità che giustifica l’appartenenza allo stesso partito e che sarà la garanzia sufficiente perché, l’uno come presidente, l’altra come Segretario di Stato, facciano un ottimo lavoro. Ed è qui che comincia a delinearsi l’immagine di un possibile futuro, quello che si aprirà a partire da domani: se è vero che Bersani ha sempre detto (a differenza di molte “vecchie glorie” del partito come Bindi e D’Alema) che Renzi è una forza necessaria per il Pd e che anche se dalle primarie uscirà sconfitto non si potrà non tenere conto del fondamentale contributo di consenso e partecipazione da lui offerto alla vita del partito, e se è vero che Renzi ha sempre assicurato con chiarezza di volersi mettere, in caso di vittoria di Bersani, a sua completa disposizione per il bene del partito e dell’Italia, allora è chiaro che già in vista delle prossime elezioni politiche di marzo il sindaco di Firenze dovrà occupare un posto privilegiato nello “squadrone” (parola di Bersani) che si candida a guidare il Paese. Dopo le primarie, dopo il dibattito e tutti gli elementi di forma e di sostanza che in questi mesi la politica nostrana ha mutuato dagli Stati Uniti d’America, quel che manca all’Italia è la figura del “running mate”, il compagno di corsa che oltreoceano accompagna il leader designato del partito nel suo percorso verso le elezioni. Nel sistema parlamentare italiano è assente la figura di un Vicepresidente dotato di poteri appena sotto quelli del capo dell’esecutivo e il vice-premier dalle nostre parti è una figura poco più che simbolica; ma visto che di simboli si tratta, sarebbe un segno importante vedere nei prossimi mesi Bersani e Renzi correre insieme verso Palazzo Chigi, offrendo agli italiani e specialmente all’elettorato di centro-sinistra l’immagine di un partito che anche dopo una sfida dura e appassionata si ritrova unito per affrontare lo scontro decisivo con la destra. Scegliendo il giovane Matteo come “vice”, Bersani intercetterebbe gli enormi consensi che si sono addensati intorno al sindaco fiorentino e che, nel caso di una sua scomparsa dalla scena politica nazionale, non è affatto detto che concluirebbero comunque verso il Pd; chiarirebbe alla parte più conservatrice dell’establishment democratico che l’esperienza di queste primarie non è stata un’esperienza di passaggio, quasi un errore di percorso destinato a finire nel dimenticatoio, ma un elemento dal quale il Pd d’ora in poi non potrà prescindere mai più; darebbe piena cittadinanza, all’interno del partito e del futuro governo progressista del Paese alle idee liberaldemocratiche e moderate che Renzi è riuscito ad attrarre verso il centro-sinistra. Sarà pure un sogno, ma quello di Bersani e Renzi sarebbe davvero il ticket da sogno che il popolo delle primarie merita per andare avanti con lo stesso entusiasmo di questi mesi verso la primavera prossima. Se stasera Pierluigi Bersani otterrà la vittoria, sarà una persona solida e di provata esperienza governativa a guidare, con competenza e affidabilità, lo schieramento dei progressisti verso le elezioni. Ma una cosa è certa, il Partito Democratico del futuro, da domani in poi, assomiglierà sempre più a quello che aveva in mente Matteo Renzi.