Home » Esteri, News, Verso le presidenziali 2012 » 44. Barack Obama, l’audacia della speranza

44. Barack Obama, l’audacia della speranza

Barack Obama, democratico (presidente dal 2009)

di Gianmarco Botti

“Se c’è qualcuno là fuori
che ancora dubita che l’America è un luogo dove tutto è possibile,
che si domanda se il sogno dei nostri padri fondatori
è ancora vivo ai nostri tempi,
che ancora mette in discussione il potere della nostra democrazia,
stanotte ha avuto la sua risposta”
(5 novembre 2008, Grant Park, Chicago)

“Credo che siamo in grado di mantenere
la promessa dei nostri fondatori,
l’idea che, se sei disposto a lavorare sodo,
non importa chi sei o da dove vieni, cosa sembri o cosa ami.
Non importa se sei nero, bianco, ispanico, asiatico, nativo americano, giovane o vecchio, ricco o povero,
non disabile o disabile, gay o etero.
In America ce la puoi fare, se sei disposto a provare”
(7 novembre 2012, McCormick Place, Chicago)

L’America è veramente il Paese in cui tutto può succedere. Anche che un afroamericano venga eletto presidente; anche che un presidente riesca ad essere rieletto con una disoccupazione all’8%, perché ha saputo tenere viva la speranza. Il messaggio della notte elettorale del 6 novembre è che è ancora presto per fare un bilancio della presidenza Obama, che tutto ancora può succedere, che the best is yet to come. Non si può consegnare ai libri di storia ciò che ancora batte nel cuore della gente, quel sogno americano di cui Barack Obama è l’ultima e più straordinaria reincarnazione. Tracciare un profilo del quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti significa quindi disegnare un futuro possibile per l’America e il suo sogno fondativo, perché il sogno che Obama rappresenta non è superato, non è un mito, o almeno non è soltanto quello, ma “mitopia”, come la definisce il politologo Paolo Bellini: compresenza ossimorica di mito e utopia, sospesa fra passato e futuro, fra “il desiderio di mostrare e giustificare l’origine di qualcosa” e una rappresentazione della realtà “che ha come fine ultimo quello di modificarla in funzione di un suo miglioramento”. Ciò che si tratta di “mostrare e giustificare” è la validità di una scommessa, quella dei padri fondatori, che vollero creare in questo angolo di mondo chiamato America una nazione di liberi ed eguali, in cui ognuno potesse realizzare i propri obiettivi, a patto che avesse la forza di crederci fino in fondo; una scommessa che è valida ancora oggi, ma deve aprirsi a significati nuovi, all’altezza dei tempi, e per questo deve essere “modificata” in relazione ad una società che cambia, che si fa multiculturale e sempre più aperta. È questo il senso della storia e dell’avventura politica di Barack Obama. “In nessun altro Paese della terra sarebbe possibile una storia come la mia”, disse nel 2008 appena dopo la sua prima vittoria. Ed è davvero così: è una storia tipicamente americana quella di “Barry”, il ragazzo di Honolulu, padre kenyota e madre del Kansas, cresciuto fra la lontanissima Giacarta e le isole Hawaii, prima di frequentare, facendo i debiti, le migliori facoltà di legge della Columbia e di Harvard; il professor Obama, insegnante di Diritto Costituzionale e avvocato per i diritti civili nella nera Chicago, che a trentacinque anni decide di tentare la carriera politica e si fa eleggere al Senato nel tredicesimo distretto dell’Illinois; il semisconosciuto senatore nero che nel 2004 viene scelto per tenere il keynote address, il discorso di apertura, alla convention democratica che incorona John Kerry, poi sconfitto da George W. Bush, e il 10 febbraio 2007, in una gelida mattina di Springfield, Illinois, fa il grande salto, presentando al mondo la sua candidatura per la presidenza degli Stati Uniti; il concorrente minoritario e senza protettori che, con un’incredibile campagna di fundraising su Internet e un uso sapiente dei social network, riesce a battere Hillary Clinton, la first lady della sinistra americana, prescelta dall’establishment e sostenuta dal potere economico e mediatico di una delle più influenti famiglie d’America; l’inesperto candidato quarantasettenne che a dispetto di tutti i pronostici si impone sul popolare senatore repubblicano John McCain, settantadue anni e una vita al servizio della patria, prima come veterano in Vietnam (torturato) e poi come membro del Congresso per oltre un ventennio. Sì, la storia del primo presidente nero, quel Barack Hussein Obama il cui nome appariva così poco americano e alle orecchie della destra rievocava i nomi terribili dei più odiati nemici nazionali, il presidente che molti ancora ritengono un arabo, un musulmano, nato al di fuori degli Stati Uniti (vedi le folli teorie dei “birthers”), è davvero una storia molto americana. Non si tratta della vecchia America, quella con “la Bibbia e il fucile”, l’America WASP del patriottismo retorico e dell’anacronistico orgoglio nazionale che tutto giustifica in nome della bandiera; quell’America, che con Bush ha conosciuto il suo trionfo e insieme la sua sconfitta, non c’è più. La nuova America di Obama è quella della generazione dell’11 settembre, dei giovani cresciuti nella stagione delle guerre preventive e delle crociate ideologiche, desiderosi di voltare pagina, assetati di “Change” e “Hope” e conquistati dal volto buono di una nazione che, se certamente non smette di fare la guerra, tuttavia ha anche il coraggio di chiedere scusa (“apologize”, parola che fa rabbrividire i Repubblicani) per gli errori del passato; l’America delle donne e dei gay che reclamano diritti, ma soprattutto delle minoranze che nel frattempo sono diventate maggioranze: gli ispanici, i figli degli immigrati, che, scalzato l’uomo bianco dalla sua secolare prevalenza, adesso sono il primo gruppo etnico del Paese e si sono dimostrati determinanti nelle elezioni di martedì scorso e in futuro lo saranno sempre di più.

Barack Obama durante il suo discorso tenuto a Charlotte dopo la rielezione il 7 Novembre 2012

Questa America ha scelto ancora una volta il sogno americano incarnato da Barack Obama, preferendolo a quello rappresentato da Mitt Romney, l’imprenditore di successo che si fa ricco (per la verità lo era già dalla nascita) e promette ricchezza e prosperità per tutta la nazione. Due diversi sogni americani, quelli incarnati dal Partito della Speranza e dal Partito della Memoria, come li chiamava Ralph Waldo Emerson: uno proteso in avanti, forward, verso il futuro, l’altro con lo sguardo rivolto all’indietro, verso la conservazione di valori e identità che portano i segni dei tempi. Del primo sogno Obama è il simbolo ideale e in lui confluisce la migliore tradizione dei Democratici: l’acutezza dello sguardo di Roosevelt, la profezia di Kennedy, la compassione di Johnson, il carisma di Clinton, e, insieme, una capacità di suscitare speranza che solo Ronald Reagan, nel campo avverso, ha saputo dimostrare negli ultimi trent’anni. Non per nulla, in risposta a chi riteneva Obama un nuovo Jimmy Carter, destinato a rimanere, dopo le elezioni di quest’anno, un one mandate-president, il settimanale Newsweek l’ha definito “il Reagan dei Democratici”. Come Reagan, Obama è riuscito a vincere la rielezione con un indice di disoccupazione e un deficit di bilancio altissimi, perché non ha smesso mai di sperare e far sperare. E se la presidenza Reagan è ricordata come una delle più importanti del secolo scorso, nonostante gli impegni disattesi e gli indubbi fallimenti, c’è da pensare che anche Obama possa ambire a questo per il secolo 2000. I suoi primi quattro anni sono stati un chiaroscuro di risultati, alcuni meritevoli, altri discreti, altri totalmente mancati. Ha posto fine a quell’immane massacro che è stato l’Iraq, ma non ha ritirato le truppe dall’Afghanistan; ha scovato ed eliminato Osama Bin Laden, scacciando in un attimo dieci anni di terrore, ma non ha chiuso il lager di Guantánamo, teatro delle più atroci torture compiute in nome della sicurezza nazionale; ha fatto approvare la più importante riforma sanitaria dai tempi di Medicare e Medicaid, che ha assicurato copertura assistenziale a milioni di americani che non se la potevano permettere (“Firmo questa riforma nel nome di mia madre, che ha dovuto lottare con le compagnie assicurative persino mentre combatteva contro il cancro nei suoi ultimi giorni di vita”, le sue parole commosse al momento del varo), ma non è riuscito a trovare un modo di limitare lo strapotere della finanza che in questi anni di crisi ha continuato ad arricchirsi, mentre l’economia reale scendeva sempre più giù e si perdevano migliaia di posti di lavoro. E, ancora, il salvataggio dell’industria automobilistica di Detroit, la gestione incerta delle “primavere arabe”, l’abolizione della legge “Don’t ask, don’t tell” che proibiva l’ingresso dei gay nelle forze armate, le ambiguità nel rapporto con Israele. Davanti a parecchi traguardi raggiunti, molte delle promesse del 2008 attendono ancora di essere realizzate, complici anche la più grave crisi economico-finanziaria dal ’29 e il durissimo ostruzionismo della maggioranza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti. Il presidente-messia che si meritò il Premio Nobel per la Pace a nove mesi dall’insediamento per le speranze che aveva evocato, è diventato via via un presidente sempre più pragmatico e come tale è stato giudicato nelle elezioni di quest’anno, ottenendo non un’ovazione da stadio, ma comunque una netta riconferma. Il segno che, in ogni caso, gli Stati Uniti non hanno smesso di credere nel sogno americano, che è un mix di pragmatismo e utopia, fatti ed evocazioni, realtà e speranza. È per questo che, comunque vada, Barack Obama sarà ricordato come il presidente che non ha mai smesso di guardare al futuro con l’audacia della speranza.

To be continued…

 
N.d.A.
Al termine del mio lungo viaggio nella storia degli Stati Uniti d’America, in cui ho avuto l’opportunità di conoscere da vicino gli uomini che per oltre duecento anni si sono avvicendati alla Casa Bianca, mi sembra doveroso ricordare i libri che mi hanno guidato in questo avvincente percorso:

  • M. A. Jones, “Storia degli Stati Uniti d’America. Dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri”, Milano, Bompiani, 2007.
  • H. Dippel, “Storia degli Stati Uniti”, Roma, Carocci, 2002.
  • J. Roper, “The Illustrated Encyclopedia of the Presidents of America”, Wigston, Hermes House 2011.