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40. Ronald Reagan, l’attore

Ronald Reagan, repubblicano (presidente dal 1981 al 1989)

di Gianmarco Botti

“Mi sono ricordato di un recente film di successo.
E nello spirito di Rambo lasciate che vi dica:
‘Questa volta vinceremo!’”

Sotto la presidenza di Jimmy Carter raggiunse il culmine la stagione del cosiddetto “malessere americano”: quasi vent’anni da incubo, dall’assassinio di JFK alla crisi degli ostaggi in Iran, passando per la guerra in Vietnam, lo scandalo Watergate e le dimissioni di Nixon, un susseguirsi di traumi nazionali che avevano minato gravemente la fiducia del popolo americano in se stesso e nel proprio futuro. Nessuno dei successori di Kennedy era stato in grado di risvegliare l’entusiasmo e le speranze dei primi anni ’60, quando il sogno americano era più vivo che mai e la “nuova frontiera” sembrava a portata di mano. C’era bisogno di un nuovo Kennedy per risollevare il morale degli americani e arrivò nel 1980, anche se da destra: si chiamava Ronald Reagan. Ex attore hollywoodiano (aveva recitato in numerosi film di secondo piano vestendo soprattutto i panni del cowboy o del gangster), marito di due attrici (Jane Wyman prima e Nancy Davis poi), di Hollywood e della mitica età d’oro del cinema Reagan incarnava tutti i valori: ottimismo, sicurezza di sé, fiducia nel futuro; un profilo vincente il suo, che ben si confaceva anche alla carriera politica. Democratico fino all’inizio degli anni ’60, era poi passato nel campo dei Repubblicani, spinto da un viscerale anticomunismo che la militanza nel sindacato degli attori, fortemente orientato a sinistra, aveva esacerbato. Con un profilo pubblico che univa leadership e carisma, capacità comunicativa e fascino personale, Reagan si aggiudicò per due volte la poltrona di governatore della California, prima di puntare su Washington. Per la conquista della Casa Bianca si rivelò fondamentale il confronto televisivo con il suo avversario, durante il quale Reagan bucò letteralmente lo schermo: la sua fu un’interpretazione magistrale, fatta di battute ben assestate e sorrisi di circostanza, maniere eleganti e frasi ad effetto, che demolirono senza pietà le lunghe e complicate argomentazioni del serioso Jimmy Carter. La domanda retorica, “State meglio ora, rispetto a quattro anni fa?”, che Reagan pose ai telespettatori nel suo appello finale, è rimasta un cult nella storia dei dibattiti tv e rese chiaro fin da subito quale sarebbe stato l’esito delle elezioni. Il 20 gennaio 1981, mentre alla Casa Bianca si insediava il nuovo presidente, a Teheran i terroristi liberavano gli ostaggi americani, dopo più di un anno di inutili trattative. Una stagione si era chiusa e un’altra stava per iniziare. A settant’anni Reagan era il presidente più anziano mai eletto, eppure sprizzava energia giovanile da tutti i pori. Nel 1984, quando conquisterà un secondo mandato contro il cinquantaseienne Walter Mondale, alla domanda se l’età fosse per lui un problema, risponderà: “Prometto di non approfittare della giovane età del mio sfidante”. Uguale arguzia e sicurezza di sé Reagan seppe dimostrare anche nei momenti più tragici: il 30 marzo 1981, dopo solo due mesi dal suo insediamento, un giovane squilibrato sparò al presidente, con l’obiettivo di attirare l’attenzione dell’attrice Jodie Foster, di cui era un fan sfegatato; mentre davanti agli occhi della nazione l’incubo di Dallas sembrava materializzarsi ancora una volta, Reagan, che aveva un polmone perforato, sciolse la tensione in sala operatoria rivolgendosi ai chirurghi con queste parole: “Spero che siate tutti Repubblicani”. Agli americani piaceva questo presidente coraggioso e ottimista, che prometteva un “nuovo inizio” basato sul ridimensionamento dei poteri dello stato (“Lo stato non è la soluzione ai nostri problemi. Lo stato è il problema”, era il nucleo del Reagan pensiero) e sulla riaffermazione dell’autorità degli Stati Uniti nel mondo. Sotto la sua presidenza giunse a compimento quella “rivoluzione conservatrice”, già iniziata con Nixon, che le forze più ostili ai mutamenti sociali (media borghesia bianca di provincia e gruppi protestanti fondamentalisti in primis) chiedevano a gran voce. Il piano di misure economiche di Reagan, le cosiddette “Reaganomics”, segnava una netta inversione di tendenza rispetto al percorso di riforme che dal New Deal di Roosevelt fino alla Grande Società di Johnson aveva promosso l’intervento dello stato. Per Reagan era prioritario garantire la libertà di iniziativa individuale, eliminando i vincoli che la limitavano attraverso processi di deregolamentazione del mercato, e favorire così la crescita economica e la creazione di nuovi posti di lavoro. Se la torta diventa più grande, anche le singole fette saranno più grandi, era il succo della sua ricetta economica. Una ricetta neoliberista, elaborata dalla scuola di Chicago di Milton Friedman, e applicata in quegli anni anche dal governo britannico di Margaret Thatcher, con cui Reagan si trovò sempre in speciale sintonia: taglio delle tasse e della spesa pubblica, in particolare di quei servizi di assistenza sociale che apparivano non più sostenibili e che, agli occhi dei conservatori, avevano creato un ceto di parassiti a carico dello stato e un generale indebolimento morale della società. Se le politiche di Reagan fecero aumentare le disuguaglianze, con i poveri che diventavano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, e il taglio delle tasse favorì una spaventosa crescita del debito pubblico, tuttavia la ripresa economica ci fu e anche un forte incremento dell’occupazione.

Il Presidente USA Reagan e il Segretario Generale Sovietico Gorbaciov firmano il Trattato INF

Riduzione dell’intervento dello stato non significò una rinuncia del governo ad intervenire nei conflitti lavorativi: Reagan ingaggiò una dura lotta contro le organizzazioni sindacali e ottenne la sua più schiacciante vittoria annientando il sindacato dei controllori di volo, che erano entrati in sciopero senza autorizzazione. Anche in politica estera Reagan decise di mostrare i muscoli per affrontare la nuova delicatissima fase dei rapporti con l’Unione Sovietica, in cui gli equilibri della distensione si erano rotti e la guerra da fredda sembrava farsi sempre più calda. Contro quello che con la sua retorica immaginifica definiva “l’Impero del Male”, ci voleva un’America forte, tecnologicamente avanzata e attrezzata per sostenere un conflitto su larga scala: a questo scopo Reagan aumentò drasticamente le spese per la difesa e diede inizio al più massiccio rafforzamento militare dell’età contemporanea. Particolare importanza nella strategia del presidente aveva il programma di ricerca “Star Wars”, con il quale gli USA si sarebbero muniti di uno scudo spaziale di difesa in grado di disintegrare in volo i missili balistici con l’impiego di laser o fasci di particelle. L’anticomunismo di Reagan trovò terreno fertile anche in America Latina, dove egli si impegnò a sostenere tramite aiuti finanziari e l’intervento della CIA le forze di destra che si opponevano ai gruppi marxisti, che si trovassero al governo come in El Salvador o all’opposizione come in Nicaragua. La tendenza all’ideologizzazione dei conflitti faceva parte in buona misura della vocazione istrionica di Reagan, ma egli seppe rivelarsi anche molto più pragmatico di quanto si potesse pensare: già nel 1983 ripresero i rapporti commerciali con l’URSS e fu posta fine all’embargo imposto da Carter; dopo il 1985, con la nomina del riformatore Michail Gorbaciov a segretario del Partito Comunista, si aprì una nuova fase di avvicinamento fra USA e URSS, suggellata anche da un’evidente simpatia personale fra Reagan e il leader sovietico. L’accorato appello rivolto da Reagan durante una visita a Berlino, “Signor Gorbaciov, apra questa porta! Signor Gorbaciov, abbatta questo muro!”, fu il segno di quel che di lì a poco sarebbe successo. Entrambi i leader sapevano che una guerra nucleare fra le due potenze sarebbe stata distruttiva e così rapidamente iniziarono le operazioni di disarmo. Verso la fine della sua presidenza, Reagan godeva di una popolarità ancora maggiore di quando era stato eletto e la base che lo sosteneva era andata allargandosi sempre più, includendo giovani e anziani, donne e professionisti, protestanti e cattolici, perfino un gran numero di Democratici, che furono ribattezzati “Reagan Democrats”. La sua reputazione non fu danneggiata neppure dall’impressionante mole di scandali che colpirono la società degli anni ’80, coinvolgendo anche alcuni membri della sua amministrazione. La deregolamentazione dell’economia, l’esaltazione della ricchezza e del profitto individuale provocarono infatti un’incredibile ondata di truffe e manovre speculative, l’immissione sul mercato di titoli tossici ad alto rischio e alto rendimento, le premesse di un allontanamento fra l’economia reale e la finanza, che con lo strapotere degli “squali di Wall Street” mostrò il suo volto più minaccioso. Ma lo scandalo di gran lunga più clamoroso, quello che più di tutti arrivò vicino al presidente, fu la vicenda Iran-Contra. Nel 1986 venne fuori che gli Stati Uniti, a dispetto della ferma condanna del terrorismo, avevano venduto armi all’Iran per ottenere la liberazione di ostaggi americani in mano a integralisti islamici libanesi vicini al regime di Teheran; si venne a sapere anche che gli introiti della vendita delle armi erano stati dirottati per sostenere i ribelli antigovernativi in Nicaragua, noti come Contras. Un quadro impietoso di malversazioni e raggiri perpetrati da una “cricca di fanatici” che aveva agito nel più totale disprezzo della legalità venne fuori dal rapporto della commissione di indagine, che portò all’arresto di numerosi funzionari governativi. Anche Reagan fu interrogato e respinse con forza ogni accusa, affermando di essere rimasto sempre all’oscuro dei fatti. L’America credette al suo eroe nazionale, che concluse il mandato con un ultimo straordinario colpo di teatro: nel dicembre 1987 Reagan e Gorbaciov si incontrarono a Washington per firmare l’accordo INF, che fissava la distruzione dei rispettivi arsenali atomici entro tre anni. La Guerra Fredda era agli sgoccioli. Reagan lasciò un mondo più pacifico e un’America più forte, seppur profondamente lacerata all’interno da disuguaglianze economiche e conflitti sociali. Il sistema capitalistico e la “filosofia dell’Occidente libero” avevano trionfato sul socialismo sovietico, ma avevano mostrato le loro debolezze proprio lì dove si erano più compiutamente realizzati: è questo il bilancio chiaroscuro di una presidenza che comunque resta una delle più amate della storia americana. Reagan si è spento nel 2004 a 93 anni di età, consumato dal morbo di Alzheimer. Negli ultimi tempi pare che non ricordasse neppure di essere stato l’uomo più potente della Terra.