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“Amour”: il minimalismo di Michael Haneke all’ennesima potenza

di Marco Chiappetta

CANNES – L’ultimo film di Michael Haneke, “Amour”, è una vera tortura. Fisica (per i personaggi), psicologica (per lo spettatore), formale (per il minimalismo estremo della regia). Due anni dopo la Palma d’oro per “Il nastro bianco”, il suo film più originale e brillante, Haneke ci riprova ritornando al suo vero stile, quello per intenderci de “La pianista” (ritrovando qui peraltro l’attrice feticcio Isabelle Huppert): secco, freddissimo, antiemotivo e anticinematografico, dove statica è la storia, statico è lo spazio, statica è l’interpretazione. Insomma, una sorta di teatro filmato logorante e noioso fino al soporifero: tanto più per la pesantezza del plot – l’anziano Georges (Jean-Louis Trintignant) assiste amorevolmente la moglie Anne (Emmanuelle Riva) dopo un ictus fino agli ultimi stadi del degrado mentale e fisico – è un film che per volontà dell’autore non intende commuovere, ma straziare nel profondo, riportandoci al peso della vita, del dolore e della tragedia quotidiana, farci assistere inerti a un dramma inutile e inutilmente senza speranza. Perché? Haneke non spiega, non dice, non esplora proprio niente, piuttosto nella sua aridità cosmica turba e sfinisce con inquadrature lunghe un’infinità, dialoghi vaghi, parentesi inutili, un ritmo densissimo che rifiuta qualsivoglia contraddizione o rivoluzione, per dire anche solo un po’ di musica o di evoluzione dei personaggi. Niente. Il film scorre piatto e alienato fino allo sciapo finale, già saputo in quanto già annunciato nel prologo, lasciando un vuoto enorme e il sospetto di aver passato due ore a nulla fare. Salvo per gli attori, eccellenti, è un film che fa davvero male.

Michael Haneke (al centro) e gli interpreti di "Amour" sul red carpet