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“De rouille et d’os”: sussulti e applausi per il film di Jacques Audiard

di Marco Chiappetta

CANNES – Fa specie vedere Marion Cotillard, come sempre bellissima, con le gambe solcare red carpet sotto braccio del suo pigmalione Jacques Audiard, entrare in sala, con un’acconciatura che è una scultura, un abito nero che è solo un suggello in più alla poesia che le conosciamo, il volto sorridente, emozionato, vivo, e poi udire applausi prima e dopo il film, quando nel durante, per due ore a luci spente, proprio lei non era Marion Cotillard: ne era la deformazione, la mutilazione, anzi la sublimazione. Attrice di razza, candidata numero uno al premio per attrice a Cannes, incanta fuori e dentro lo schermo: impossibile, pur da lontano, pur da sopra gli spalti, non cedere al suo splendore, così come poi nel film, struggente, di Audiard si è così vicini e dentro il suo dramma che diventiamo lei, viviamo lei. La sua è allora una bellezza tutta interiore, come quella del film, tutta da sentire.
Secco come la ruggine, duro e nudo come un osso, per restare in tema col titolo, il film racconta un incontro, come spesso accade, tra due reietti, outsider fisici o sociali: ma non c’è la patina agrodolce e buonista di “Quasi amici”, piuttosto il tono realista, sprezzante, terribile di un vero autore che vuole dire le poche cose necessarie, fossero anche sgradevoli.
Alain (Matthias Schoenaerts), spiantato e irresponsabile poveraccio con figliolo a carico (Armand Verdure), trova accoglienza ad Antibes dalla sorella (Corinne Masiero) e un lavoro come buttafuori in una discoteca. Una sera, dopo una rissa, accompagna a casa la bella Stéphanie (Marion Cotillard), addestratrice di orche per i giochi acquatici, e non le resta indifferente. Quando, a seguito di un incidente di lavoro, Stéphanie resta mutilata delle gambe e su una sedia a rotelle, tra i due, soli al mondo, nasce prima un’amicizia tenera e gentile, poi un rapporto carnale, infine un amore impossibile: sfiorandosi, perdendosi, ritrovandosi. Alain guadagna combattendo nei fight club clandestini e con qualche illecito, Stéphanie comincia a camminare con delle protesi e sente su di sé il peso della sua anomalia: insieme nella melma infernale del dolore, insieme rivedono la luce.
La regia pedina e immortala questi personaggi in declino e in cerca di ascesa con lo stesso fare ansimante e nevrotico che era la qualità maggiore del precedente film di Audiard, “Il profeta”, non diversamente claustrofobico e atroce di quanto vediamo qui: padre e figlio pescano tra i rifiuti in un treno, un’orca azzanna le gambe dell’addestratrice che si risveglia con due birilli di carne al posto delle gambe, il padre ignora e batte il figlio, il padre sempre scanna terzi a suon di pugni e calci in lotte animalesche, il figlioletto cade nel lago ghiacciato e quasi ci lascia la pelle. Tensione, paura, lacrime, sussulti. Ma anche dolcezza e poesia, anche nell’orrore, nelle copule tra i due, e quando insieme fanno il bagno a mare, e quando Stéphanie gesticola con le mani come se fosse ancora là all’aqua park a far ballare le orche, e poi ritornarci davvero, su due protesi come trampoli, sul luogo del delitto, ancora con le orche, a sfiorarle attraverso il vetro, farle danzare ancora. E quanta solitudine, quanta sottile poesia, nel cuore infranto di questa donna in rovina: l’interpretazione estrema della Cotillard mutilata e sporca e penosa è proprio quello che ci si aspetta dal cinema, la verità, pur terribile, solo la verità. Con la sua prova la divina Marion oscura perfino la bravura del collega Matthias Schoenaerts, rude, bestiale, pur in fondo umano. Quanto ad Audiard, che dire, sa rendere emozionante una scena persino con la più roboante e casinista canzone da discoteca.
Unico e imperdibile.

Marion Cotillard e Matthias Schoenaerts in una scena di “De rouille et d’os”: