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Cui prodest? Il futuro dell’Italia, tra riforme e discorso politico /2

di Attilio Greco

Dal 2001 ad oggi non c’è stata alcuna riforma legislativa, capace di incidere sull’economia nazionale, nonostante la mole di interventi possibili. Anche andando alla cieca, probabilmente, si sarebbe ottenuto di più. Si sono promessi mirabolanti investimenti, mai mantenuti, nel campo dell’edilizia e delle grandi infrastruttre e si sono collezionati condoni. Si parlava di abbattere, con lo strumento delle liberalizzazioni, la rete di privilegi e favoritismi di certi ceti e caste professionali, con il risultato di aver goduto solo della leggera brezza delle “lenzuolate” di Bersani e dello strombazzare di tassisti inviperiti. Ci hanno detto che si sarebbe sanato lo spreco di una giustizia macchinosa ed inefficiente, che avrebbero favorito in mille e più modi l’attività di associazioni come Libera, rivalutando il patrimonio immobiliare ed artistico sottratto alla mafia. Risultato? A poche settimane dalle elezioni amministrative, i comuni di Gragnano, Fondi, Leinì e Pagani sono stati sciolti per infiltrazioni mafiose e si moltiplicano i casi di clan mafiosi o camorristi rientrati in possesso dei beni loro sequestrati. La stessa Roma è ora terreno di caccia prediletto delle organizzazioni criminali, attratte dalla possibilità di investire nei quartieri bene e nella politica il loro denaro sporco ed insaguinato, frutto di attività illecite. Sul fronte della giustizia, infine, è stato tentato, in tutti i modi possibili e immaginabili, di privare della magistratura lo strumento delle intercettazioni e depenalizzando o depotenziando i reati dei “colletti bianchi”, cioè di coloro che operano nella “zona grigia” della mafia, quella degli affari e della politica, così come descritta a suo tempo da Falcone e Borsellino. Hanno restaurato il già una volta abrogato finanziamento ai partiti, lasciando che lo Stato fosse il primo contribuente dei partiti mentre questi ultimi salassavano e depredavano la sanità nazionale. Il patrimonio culturale svenduto o lasciato cadere in rovina – Pompei docet – come neanche il tempo è riuscito a fare in millenni di storia. Per concludere, la riforma delle riforme, quella sul federalismo fiscale, è ancora in alto mare, tanto che un leghista come Tosi, sindaco della città di Verona, ha detto “se la sinistra l’anno prossimo ci promette il federalismo, perché dirle di no ad un’eventuale alleanza?”. Ecco come sconfessare oltre dieci anni di alleanza con il berlusconismo.
Quale futuro dunque per l’Italia, dopo l’esperienza dell’attuale governo tecnico? Cui prodest? A chi giova la situazione attuale? Difficile dirlo. L’arrivo di Monti alla presidenza del Consiglio e l’apertura d’una nuova stagione politica avrebbero dovuto permettere alla politica di ricostruire se stessa dall’interno, recuperare il rapporto con i cittadini e assicurare, al contempo, la realizzazione delle riforme, già discusse prima, che l’Europa e il mondo e la nostra storia ci impongono.
Certo gli scandali degli ultimi tempi, tutti con protagonisti tesorieri di partiti molto disinvolti nel maneggiare denaro pubblico, gettano nel caos chi sperava nella possibilità di un ritorno alla normalità entro il 2013, anno delle prossime elezioni legislative.
Quanti sostenevano che, caduto Berlusconi, veniva meno la causa dei mali italiani, s’è sbagliato. Il berlusconismo è, da un lato, sì causa di tanti mali odierni, dall’altro, però, è anche il frutto di tanti errori precedenti, non imputabili questi alla classe dirigente bensì ai cittadini. Non ci si deve neanche stupire, quindi, se oggi i partiti si preoccupano più di limitare i danni futuri, con una nuova legge elettorale, piuttosto che partecipare attivamente ai lavoro di ricostruzione dell’Italia. Se fossero stati capaci di fare ciò certo non si sarebbero affidati ad un governo tecnico, dichiarato paravento della frustrazione e disperazione del popolo. Più che di un semplice governo tecnico, c’è la necessità d’una legislatura, la prossima, di transizione. Iniziata e conclusa dalla politica però. In quest’anno che seguirà, la classe dirigente deve giungere ad un accordo circa le riforme da compiere, specie quelle che riguardano se stessa e il proprio funzionamento. In questo modo si avrebbe la classica situazione del “due piccioni con una fava”: in un colpo solo si recupererebbero credibilità e immagine, a fronte di un risanamento delle casse pubbliche, con conseguente sollievo della cittadinanza. Ha ragione Cicchitto a dire che non è compito di Monti disegnare la legge sulla corruzione, rivedere il finanziamento pubblico ai partiti, modificare gli assetti di potere nella Rai e approvare una legge sul conflitto di interessi. E’ compito della politica fare ciò, riparare al male che essa stessa ha causato. Di tutta la politica, non di una maggioranza. Non chiediamo ai partiti e ai loro esponenti di essere diversi rispetto agli altri per onestà e trasparenza. Si dovrebbero vincere le elezioni non sulla base d’una presunta superiorità morale o ideologica bensì per i programmi politici o idee in fatto d’amministrazione. Ai partiti, sul fronte dell’integrità e della trasparenza, si chiede solo di essere tutti figli della stessa madre: quella questione morale tanto invocata da Berlinguer e mai passata di moda. Quando le rivoluzioni liberali, tra mille fatiche e difficoltà, costrinsero i sovrani d’Europa a concedere le Costituzioni e a limitare i loro poteri, venne in auge il principio per cui “il sovrano regna ma non governa”. E’ altrettanto difficile chiedere alla classe dirigente italiana di adottare la massima: “governa un po’ di più, spadroneggia meno”? Speriamo di no.