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4. James Madison, il democratico prudente

James Madison, demo-repubblicano (presidente dal 1809 al 1817)

di Gianmarco Botti

“Nulla potrebbe essere più irragionevole che dare potere al popolo, privandolo tuttavia dell’informazione senza la quale si commettono
gli abusi di potere. Un popolo che vuole governarsi da sé deve armarsi del potere che procura l’informazione. Un governo popolare,
quando il popolo non sia informato o non disponga dei mezzi
per acquisire informazioni, può essere solo il preludio a una farsa
o a una tragedia, e forse a entrambe”

Dai regimi totalitari alle finte democrazie populistiche, il Novecento di tragedie e farse ne ha viste tante. Senza il solido consenso “democratico” della nazione tedesca, sobillato da farneticanti dottrine pseudo-scientifiche, Hitler e il nazismo non sarebbero stati possibili. In tempi più recenti governi farseschi e da avanspettacolo hanno potuto contare su un ampio sostegno popolare beneficiando degli effetti della telecrazia e della peggiore propaganda. Viene naturale, dunque, interrogarsi sui limiti della democrazia, o meglio ancora, porsi l’annosa questione se la democrazia debba avere dei limiti o meno. C’è chi, come Samuel Huntington, ha parlato di “sindrome democratica”, mettendo in luce i rischi che un eccesso di democrazia e partecipazione può comportare per la vita dello stato. Una posizione che ha scandalizzato molti, dentro e fuori gli Stati Uniti, ma che non è così dissimile da quella che ispirò gli intenti dei padri fondatori della più grande democrazia moderna. James Madison è stato uno di questi. Costituzionalista, ministro degli esteri del governo Jefferson, quarto presidente degli Stati Uniti (il terzo proveniente dalla Virginia), con le sue idee diede un contributo fondamentale al dibattito sulla natura che la nuova democrazia americana avrebbe dovuto assumere, testimoniato dalla serie di articoli raccolti sotto il nome di “The Federalist papers”. Filosoficamente Madison fu discepolo di Rousseau e di quella concezione della “volontà generale” intesa come suprema manifestazione del bene comune, che prescinde dagli interessi dei singoli individui e partiti politici e che sola può fornire un fondamento e una legittimazione al potere dello stato. Pertanto, immaginava un sistema costituito da una serie di controlli e bilanciamenti fra i poteri che limitassero l’arbitrio della maggioranza e il rischio che la sua volontà si trasformasse in oppressione. Tuttavia, non sempre è facile far combaciare la teoria con la prassi, l’armonia ideale prevista dal diritto trova un ostacolo nelle dinamiche caotiche della politica e Madison dovette accorgersene per forza: sotto la pressione di un’opinione pubblica fortemente nazionalista, capitanata dai cosiddetti “War Hawks”, che mirava alla conquista di Canada e Florida, fu costretto a dichiarare guerra alla Gran Bretagna. Fu un disastro: gli inglesi riuscirono ad entrare a Washington, il Campidoglio e la Casa Bianca furono incendiati, il presidente dovette fuggire. Per una tragica ironia, l’esigenza di mediazioni e garanzie che limitassero l’impatto delle passioni del popolo sul governo del Paese, come auspicata da Madison, uscì confermata dai fatti. Eppure, si resterà sorpresi nello scoprire che proprio Madison fu il redattore del II emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti, quello che afferma: “Essendo necessaria alla sicurezza di uno stato libero una ben regolata milizia, il diritto del Popolo di detenere e portare armi non sarà violato”. Anche se, nelle intenzioni di chi le scrisse, tali parole volevano affermare l’autonomia e la libertà della nazione, vista come popolo in armi che lotta per la propria indipendenza, esse si prestarono ad un abuso che sarebbe rimasto una costante nella storia degli Usa e che ancora oggi pare duro a morire: l’esaltazione del libero possesso delle armi, portata avanti dalla National Rifle Association attraverso una decisa campagna politica e d’opinione, ne fa la responsabile ideologica delle efferate stragi di Columbine e Virginia Tech. Forse la cautela non è mai troppa.