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1. George Washington, il padre fondatore

George Washington (presidente dal 1789 al 1797)

di Gianmarco Botti

“Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi”, esclamava ironico il grande Bertolt Brecht. E sì, perché è un dato più volte comprovato dalla storia che i popoli, nel momento in cui si formano come tali e prendono coscienza di sé, sentono l’esigenza di costruire la propria identità intorno a figure di spicco, storiche e mitologiche ad un tempo: gli eroi, appunto. Noi abbiamo i grandi artefici del Risorgimento. Gli Stati Uniti hanno George Washington. Un po’ Garibaldi e un po’ Vittorio Emanuele, la libertà del suo Paese seppe conquistarla sul campo di battaglia e difenderla poi dall’alto di una carica, quella di Presidente, che ricoprì per otto anni. Fu eletto nel 1789, anno che unisce idealmente le due sponde dell’Atlantico nell’unica rivoluzione che dà inizio alla modernità.
Lui, che prima di intraprendere la carriera militare aveva fatto il geometra e il sacrestano, accettò questa responsabilità con totale riluttanza, dichiarando di sentirsi come un condannato condotto al patibolo. In effetti, i problemi che si trovò di fronte avrebbero spaventato chiunque: come poi accadde al primo Re d’Italia, assunse la guida di una nazione tutt’altro che unita e tutta da costruire, minacciata dalle incursioni degli indiani e dalla permanenza di truppe straniere come la nostra penisola lo era da briganti e borbonici. Ma li affrontò con lo spirito del combattente, quello che gli aveva guadagnato la storica vittoria di Yorktown e la definitiva sconfitta degli inglesi. Sotto la sua presidenza si formò una commissione con il compito di redigere la costituzione, furono poste le basi dello stato in senso federale e definiti i poteri del Presidente, inizialmente troppo simili a quelli dei monarchi europei. Nel 1796, allo scadere degli otto anni, Washington non volle ricandidarsi, stabilendo un precedente, quello di non superare i due mandati, che sarebbe stato rispettato da tutti i suoi successori, ad eccezione di Franklin D. Roosevelt. Nel messaggio di addio alla nazione la esortò a tenersi lontana dalle vicende europee e ad “evitare alleanze permanenti con qualsiasi altra parte del mondo”, dando il via ad una tradizione isolazionistica che per duecento anni sarebbe rimasta una costante nella politica estera americana; a tutti raccomandò di mantenere la guardia “contro i funesti effetti dello spirito di parte”, perché, seppure autonomi ed indipendenti, gli Stati a cui egli pensava e per cui aveva combattuto dovevano essere pur sempre Uniti. Dopo di che fece ritorno alle sue terre di Mount Vernon, come un moderno Cincinnato che aveva ormai assolto al suo compito. Ammalatosi di influenza, morì il 14 dicembre 1799, appena due anni prima che la sua gente gli dedicasse il monumento più importante: la capitale, Washington D.C.
Un saggio della tempra morale dell’uomo e dello statista viene fuori da un simpatico aneddoto che tutti i bambini statunitensi conoscono: si racconta che all’età di otto anni il piccolo Washington avesse abbattuto un ciliegio per provare un’ascia ricevuta in regalo. Al padre che chiedeva chi fosse stato ad abbattere l’albero, il futuro presidente rispose con serenità: “I can not tell a lie, it was me who chopped down the cherry tree”, ovvero, “Non posso mentire, sono stato io ad abbattere il ciliegio”. Affondano qui le radici di un modello che per il popolo americano resterà intatto nei secoli: quello di un presidente che non dice bugie e che sia pronto anche ad ammettere di aver abbattuto un ciliegio.