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Kevin Spacey chiude il Napoli Teatro Festival. Acclamato “Richard III”, racconto del potere da Shakespeare ai giorni nostri

di Roberto P. Ormanni

Dalla platea in piedi del teatro Politeama di Napoli salgono gli applausi, l’acclamazione è permeata da un’emozione profonda. Il pubblico intervenuto sembra rendersi conto di aver assistito a un gioiello teatrale più unico che raro.
Si chiude così, con una lunga standing ovation, la quarta edizione del Napoli Teatro Festival Italia, che per l’appuntamento finale ha portato in scena, per la prima e unica data italiana, l’opera di Shakespeare “Richard III”, diretta dal regista Sam Mendes e cucita indosso al premio oscar Kevin Spacey.
Prodotta dall’Old Vic (uno dei teatri inglesi più amati al mondo) e presentata nell’ambito del progetto firmato Mendes “The Bridge Project”, la piece shakespeariana è sbarcata a Napoli facendo registrare il tutto esaurito per le tre repliche in programma e ha regalato agli spettatori una rappresentazione di evidente spessore, interpretata da una compagnia di compatta bravura ma, soprattutto, da un colossale Kevin Spacey, brillante ed assoluto nel suo ruolo. Un ruolo, quello di Riccardo III, di non facile lettura: eroe negativo, un lato oscuro pesante e quasi pericoloso da esplorare. “Per interpretare questo ruolo – ha dichiarato Spacey, in una pausa durante le prove – devi addentrarti in zone remote che non vorresti mai scoprire, portando alla luce aspetti di te che rifiuti: insomma, scavare in tutta quella merda”. Eppure, il risultato di tale fatica è sorprendente. Ciò che ne esce fuori è un Riccardo III spregiudicato, ignobile, malato ma al tempo stesso coerente con la sua follia. Un personaggio che, nel corso dello spettacolo, va a interfacciarsi direttamente con il pubblico, unico confidente, fino a diventarne complice. Un protagonista disegnato da Shakespeare alla fine del Cinquecento, ma che appare fortemente attuale: un “Richard III” contestualizzato all’osso e quasi politico. Sullo sfondo, infatti, non c’è semplicemente la monarchia inglese o la Guerra delle due Rose. Ciò che si rileva, nel discorso portato avanti, unico e senza tempo, è il potere, nella sua forma più assoluta. Sulla scena sale Riccardo III, sulle pagine dei giornali compaiono Gheddafi o Mubarak: l’assunto è il medesimo, la descrizione è identica.
Superba la direzione di Mendes, che prepara una regia quasi cinematografica: invenzioni audaci e mai una ripetizione nelle “inquadrature”, forte delle scenografie di Tom Piper e delle luci di Paul Pyant. Ultima nota riservata ai musicisti in scena, Hugh Wilkinson (percussioni) e Curtis Moore (tastiere): valore aggiunto allo spettacolo, operatori di una colonna sonora impetuosa, che quasi sembrava scandisse il ritmo di ogni gesto, di ogni dialogo, di ogni passo del deforme e brutale Richard III.
Chapeau.