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Malick e la sua pellicola sul mistero della vita. “The Tree Of Life” tra leggerezza e poeticità

di Marco Chiappetta

TRAMA: Anni ’50, nel cuore del Texas: la vita provinciale e piccolo-borghese della famiglia O’Brien, tra gioie, dolori, avventure e routine; l’educazione repressiva del padre (Brad Pitt), la gentilezza della madre (Jessica Chastain), le scorribande dei fratelli Jack (Hunter McCracken), R.L. (Laramie Eppler) e Steve (Tye Sheridan) in mezzo a una natura incontaminata. I ricordi di infanzia affiorano oggi, in una metropoli dinamica e progredita, nella mente dell’ormai adulto Jack (Sean Penn), in crisi con un mondo moderno che non capisce.
GIUDIZIO: Quinto film in trentotto anni per il leggendario regista Terrence Malick, il cui talento è inversamente proporzionale alla prolificità, è una delle opere più ambiziose, straordinarie e profonde della storia del cinema. Un viaggio travolgente, a partire dai ricordi di infanzia e dalle scenette familiari, fino alle radici dell’universo, dell’uomo, della natura. Una riflessione, priva di retorica e leggera come la poesia, sul nascere e sul morire, ma soprattutto del vivere: spaziando tra passato e presente, astratto e reale, ordinario e straordinario, la regia di Malick s’insinua, impercettibile, fluida, volante, nel mistero della vita, spoglia il mondo e lo mostra in tutta la sua bellezza. Questa bellezza, allo spettatore che è subito immerso dentro il film, è come se l’avesse vista la prima volta: come un poeta o un bambino, Malick cattura e offre schegge di bellezza, le mischia, le confonde, come in un fantastico sogno, un profluvio continuo di colori, paesaggi, visioni, sentimenti, che proprio come in un sogno è difficile coglierli tutti, e non lasciano mai un ricordo vivo, ma solo, alla fine, l’ombra di un’emozione, di un’esperienza unica, mai prima provata. È spettacolo puro, per gli occhi, per la mente, per il cuore: lo spettacolo della vita.
A Malick bastano i silenzi, dialoghi ridotti all’osso, tanta musica sublime, pochi personaggi schematici e senza nome, per mostrare e raccontare il suo mondo interiore. Non c’è storia, non deve esserci; è spesso lento, confuso, incomprensibile, inspiegabile, ma è giusto così, non c’è niente da comprendere, niente da spiegare.
È la potenza del cinema: nessuna arte può raccontare tutto questo, si riscopre il piacere, vecchio di 115 anni, di entrare in una sala buia e riempirsi gli occhi di bellezza; poi uscire e vedere la vita un po’ più felicemente. C’è pane per i denti per qualsiasi tema o dibattito: ma tutto è lasciato all’impressione, alla visione viva, esplicita, della vita in sé. La bellezza dei paesaggi e dei volti umani è struggente: è tutta la bellezza che Malick porta dentro sé e trasferisce sullo schermo. Non sembra mai di assistere a un film, ma alla pura vita che scorre, si aggroviglia, si libra, vola, ritorna, sconvolge, penetra nelle viscere del mondo: non c’è poi molto da dire su un film che ha detto tutto.
Malick strizza l’occhio a Bergman (primi piani, silenzi, paesaggi-protagonisti), Kubrick (la memorabile sequenza dell’origine dell’universo, che raggiunge i vertici visionari di “2001: Odissea nello spazio”), Fellini (il finale, con tutti i personaggi della vita di Jack, morti o vivi, sulla riva, è un chiaro riferimento al finale di “8 ½”), ma il suo film – mistico, poetico, spirituale – ha qualcosa di immensamente personale, immensamente geniale, che nessun altra opera d’arte possiede, e mai possiederà.
Attori strepitosi, fotografia di Emmanuel Lubezki e musica minimalista di Alexandre Desplat per un autentico capolavoro, che ha meritato la Palma d’oro a Cannes e un posto nella memoria per sempre.
VOTO: 5/5