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Essere uniti, essere italiani: la storia d’amore di un paese

di Lorenzo Mineo

Caro direttore,
ricorrevano ieri centocinquant’anni esatti dacché siamo nazione unita, dacché Vittorio Emanuele II di Savoia veniva incoronato primo re d’Italia, dopo che, per secoli, la nostra penisola aveva sopportato la condizione di terra di conquista, frammentata in una miriade di staterelli, perlopiù assoggettati al dominatore di turno o comunque costretti a indipendenza relativa.
L’Unità ha storicamente rappresentato il traguardo di una strenue battaglia di liberazione, mossa dal desiderio e sogno risorgimentale di costruire per le generazioni future un paese che avrebbe dato al suo popolo i diritti che gli sarebbero spettati.
Da cittadino, dunque, mi preme esternare la tristezza che in me suscitano polemiche in merito all’opportunità di festeggiare questa ricorrenza: l’evento va dignitosamente ricordato, io credo, per la conquista irrinunciabile che rappresenta. E ai richiami secessionistici di chi nostalgicamente rimpiange il passato, andrebbe ricordato come l’Unità abbia rappresentato la sola possibile condizione per emancipare il popolo italiano dai soprusi delle dominazioni straniere.
L’Unità ha quindi garantito una condizione di libertà che sempre andrà preservata, ed è tenendo ben presente questo precetto che va festeggiata, più che mai in un momento critico come quello di oggi, all’insegna di una continuità con quegli ideali risorgimentali volti a un ridimensionamento del proprio paese.

“Uniamoci, amiamoci. L’Unione e l’Amore rivelano ai Popoli le vie del Signore. Giuriamo far libero il suolo natìo: Uniti per Dio chi vincer ci può? Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte, siam pronti alla morte, l’Italia chiamò”. Sono le parole del nostro inno nazionale, scritte da Mameli e cullate dalle note di Novaro. Credo che non sia un caso se il “poeta-studente” genovese, patriota di vent’anni, Mameli, scelse di utilizzare la parola Amore affiancata a quella di Unione. Amore è Unità e Unità è Amore, o almeno così dovrebbe essere. Tutti i rivoluzionari risorgimentali furono spinti da ideali, prima che da obiettivi pratici. Nient’altro che la passione, il furore, l’intensità tenevano vivo il fuoco della lotta. Tutti i patrioti cercavano una nazione, una libertà, un’unità perché riempiti e innamorati dal significato che queste parole significavano. Dopo il Risorgimento, credo, solo la Resistenza riuscì a incarnare nuovamente questo senso di legame devoto alla propria terra. E infondo, credo che funziono così l’esistenza stessa di un paese. Un paese è un po’ come una donna da amare: va curato, rispettato, adorato. Senza eccesso, perché come detto da Benigni a Sanremo, nell’amore -come nella morte- il “troppo” non può esistere. Esiste solo il giusto. E se l’esagerazione dovesse scivolare nel rapporto che si ha con il proprio paese, il patriottismo degenerebbe in nazionalismo. E tutto, allora, si corromperebbe.
Eppure, oggi, Risorgimento, Resistenza, Libertà, Democrazia, sembrano essere semplici parole, contenitori di un qualcosa che ormai ci è estraneo. Guardiamo un paese, una democrazia, uno stato di diritto, come qualcosa che abbiamo perché dobbiamo avere, dimenticandoci che ogni cosa, invece, è stata conquistata da qualcuno che sperava di vivere e raggiungere momenti migliori e che, spesso, ha pagato con il sangue il proprio ideale. Ma sempre con fierezza, perché “pronto alla morte”.
Credo che oggi, qualunque fazzoletto verde della Lega o qualunque bandiera bianca neoborbonica, rappresentino un insulto non solo al Risorgimento e ai suoi uomini, ma agli stessi partigiani e a “Bella Ciao” e alla Costituzione e a tutti gli uomini che in 150 anni hanno provato a cambiare un paese. Da Mazzini a Falcone, da Garibaldi a Pertini: tutti. Perché sono stati tutti italiani. Così come, nonostante tutto, lo siamo noi oggi: tutti italiani.
Viva l’Italia, caro Lorenzo. L’Italia tutta intera.
Roberto P. Ormanni