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La paideia al tempo della telecrazia

di Gianmarco Botti

Secondo il premier Berlusconi, libertà di educazione per i propri figli “vuol dire non essere costretti a mandarli in una scuola di Stato, dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare princìpi che sono il contrario di quelli dei genitori”. È quanto ha detto la settimana scorsa galvanizzando la platea cattolica dei Cristiano Riformisti. Ma il presidente del Consiglio non ha convinto la Cei, che del Cattolicesimo italiano rappresenta la voce più autorevole: “Ci sta a cuore l’educazione integrale anche attraverso la scuola e in qualunque sede, statale o non statale, l’importante è che ci sia questa istruzione ma anche questa formazione della persona che è scopo della scuola a tutti i livelli”. Un tema, quello della formazione delle nuove generazioni, che non sta a cuore solo alla Chiesa, ma alla società nella sua interezza. E lo spirito giusto per affrontarlo non è certo quello che sta dietro certe tirate il cui unico scopo è generare contrapposizioni: fra scuola pubblica e scuola privata, addirittura fra scuola e famiglia. Proprio loro che dovrebbero agire in sinergia, avendo in definitiva una comune missione: quella che gli antichi chiamavano “paideia”, la formazione di tutto l’uomo come processo mai finito portato avanti a tutti i livelli: familiare, sociale, politico. È l’ideale che ispira Aristotele quando distingue virtù etiche e virtù dianoetiche, fra loro strettamente connesse: le prime si acquisiscono con l’abitudine all’interno del nucleo familiare sotto l’influsso dei costumi della città e preparano alle seconde, che sono il frutto dello studio e dell’insegnamento teorico. Poco virtuoso e abbastanza desolante è invece il panorama che oggi ci troviamo davanti agli occhi, caratterizzato dalla rottura di quell’“alleanza educativa” rimasta salda per tempo immemorabile. Di questa rottura tanto la scuola quanto la famiglia hanno risentito.
La scuola non educa, anzi, diseduca, afferma il Primo Ministro. E la cronaca di certi atroci episodi che si verificano nelle aule scolastiche del nostro Paese parrebbe quasi dargli ragione. Tutto questo mentre ogni giorno i telegiornali ci presentano la famiglia come il teatro dei crimini più osceni, il terreno di coltura del disagio di molti giovani che poi si trasforma in violenza. Davanti ad una simile emergenza educativa, a cui tutti gridano, ma che nessuno prova a risolvere seriamente, viene da chiedersi come si possa essere arrivati a questo punto. Com’è possibile che le due principali agenzie educative, da sempre impegnate nella formazione dell’individuo, abbiano perso la loro presa su buona parte delle nuove generazioni? Chi o cosa ha preso il loro posto nel delicato e fondamentale ruolo di formare le coscienze degli uomini del domani? Nichi Vendola ha detto, inserendosi nella polemica sulle parole del premier, che “è stata proprio la crisi della scuola pubblica e il trionfo delle televisioni di Berlu¬sconi ad aver accompagnato l’egemonia del quindicennio”. Emerge adesso un elemento a tutti ben noto ma che finora era rimasto nascosto sul fondo del nostro discorso: è il gigantesco, sempre crescente potere esercitato negli ultimi decenni dai mass media sulla società, specie sulla sua porzione più giovane. Basti pensare a quanto tempo passa un adolescente ogni giorno fra tv e computer e confrontarlo con il tempo che passa a scuola per rendersi conto della situazione. Una battaglia impari che vede genitori e insegnanti impegnati a fronteggiare la seducente influenza di quelli che si presentano come autentici portatori di verità per il solo fatto di apparire, per un motivo o per un altro, su schermi piccoli e grandi. Quando poi vedi, com’è accaduto qualche tempo fa, una professoressa universitaria di latino che balla, pienamente a suo agio nella patinata e artefatta atmosfera di “Uomini e donne”, ti cadono veramente le braccia. Ma il dominio esercitato dalla massa e dai suoi canali di espressione sull’individuo e la sua libertà non è una scoperta recente, né un prodotto esclusivo della nostra civiltà iper-tecnologica. Lo attesta già Platone, quando nella “Repubblica” presenta le difficoltà a cui andrà incontro il giovane filosofo in una società nemica della verità e soggiogata dal volubile sentire della moltitudine: “Quale privata educazione potrebbe resistere in lui senza venir travolta da un tal flutto di biasimi e di lodi, e non si lascerà trasportare dove la porta la corrente? Non dirà forse che sono belle e brutte le stesse cose che pensa la folla, e non si darà allo stesso modo di vita, alle stesse loro occupazioni, diventando uno dei loro?”. Il clima descritto è quello dell’odierna telecrazia, che tutto controlla e tutto orienta alla realizzazione dei suoi scopi, alla maniera del Grande Fratello di Orwell, nella versione di seconda mano di un reality targato Mediaset. D’altronde in tutti i tempi l’uomo ha compreso come, per trasformare alla radice un contesto sociale, occorra mettere mano innanzitutto al sistema educativo. È quello che hanno fatto i sistemi totalitari, Nazismo in prima linea; e così ha fatto anche il nostro Fascismo, che ha costruito la sua forza ideologica sulla produzione in serie di Balilla e Piccole italiane. Ma è da lì che bisogna partire per invertire nuovamente la rotta, costruendo l’alternativa, come hanno fatto, nel corso del ventennio fascista, quelle poche istituzioni formative che poterono rimanere in vita: da esse verranno fuori molti partigiani prima e statisti poi che porranno le basi dell’Italia democratica nel dopoguerra. E così, se l’insegnante che partecipa a “Uomini e donne” è un segnale preoccupante, la speranza può nascere dall’appello in difesa della scuola pubblica sottoscritto, fra gli altri, dal prof. Roberto Vecchioni, reduce dalla vittoria di Sanremo. Oppure da quella scuola media di Catanzaro dove i ragazzi si sono dimostrati più adulti e maturi della loro preside rinunciando in massa ad una gita per solidarizzare con il loro compagno disabile a cui era stato impedito di prendervi parte.