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La nostra partita fra Caso e Destino

di Gianmarco Botti

Fato e Caso. Necessità e Fortuna. Le parole filosofiche per eccellenza. Eppure, per niente estranee al parlare di tutti i giorni e al comune sentire. Tutta la storia del pensiero si dipana tra queste due linee. Da una parte l’inesorabile disegno prestabilito del cielo; dall’altra il contorto groviglio di casualità in cui tutto può accadere. Niente di diverso sta dietro le tante frasi che, senza neppure farci molta attenzione, pronunciamo ogni giorno: riflettendo sul nostro passato, spesso concludiamo che “era destino” che le cose andassero così; a tutti, all’inizio di un nuovo anno, sentiamo il bisogno di fare gli auguri di “buona fortuna”. Sembrerebbe proprio che al di fuori di queste due categorie non ci riesca di pensare la nostra vita e specialmente il nostro futuro. Talvolta ci piace addirittura rimetterlo al verdetto degli astrologi oppure ai giochi delle cartomanti. Pare quasi che, anziché inquietarci, queste parole ci diano sicurezza; forse perché ci abbiamo fatto l’abitudine, ci sono diventate familiari, se è vero che siamo figli di quella civiltà greco-latina che se ne nutriva come della propria linfa vitale. “Fatum” era ciò che era stato detto, deciso una volta per tutte, la sentenza inappellabile di un dio che condiziona irreversibilmente le vicende umane. Anzi, nell’universo del mito e della poesia omerica, il fato occupava un posto superiore a quello di ogni divinità e perfino Zeus, padre degli dei, gli era sottoposto. Il filo teso dalle mani delle Parche, quello della vita di tutti gli uomini, anche i più grandi, come quell’Edipo che finirà per peccare pur senza volerlo, vittima di un copione già scritto. Un’esigenza innata dell’animo umano, che sente il bisogno di disporre gli eventi secondo una linea retta che non ha tracciato ma che non può non seguire. Lo sottolinea Cesare Pavese quando scrive che “le cose accadute ciascuno le interpreta, se ne ha la forza, disponendole secondo un senso – vale a dire, un destino”. Parimenti potente è il richiamo del Caso, che altro non è che lo scettro di quella imperscrutabile dea bendata cui diamo il nome di Fortuna. In essa spesso diciamo di riporre poca fiducia, ma affidiamo il nostro avvenire al suo cieco giudizio, ad una scommessa, un tiro di dadi, un biglietto della lotteria. Cos’è che ci spinge a mettere nelle mani di questi due signori così venerabili eppure così temibili ciò che di più importante abbiamo al mondo, ossia la nostra vita e il nostro futuro? Ecco, io credo sia la paura. La paura di assumerci la nostra responsabilità di scegliere e di agire. Pur di sfuggirle, preferiamo abbandonarci alla dolce corrente del destino, lanciarci in quel salto ad occhi chiusi che è il confidare nella fortuna. Il destino, tracciato da altri, ci risparmia la fatica di scrivere quotidianamente la storia della nostra esistenza. Il caso, con la sua incontrollabile mutevolezza, allontana da noi i riflettori della responsabilità, dirottandoli sulle mille fortuite evenienze che ci accadono. Se qualcosa va storto, possiamo sempre dire che il destino ci è avverso o che è colpa di un rovescio di fortuna. In questo modo non siamo più i protagonisti di quello spettacolo senza repliche che è la nostra vita. Va detto però che destino e casualità, di cui spesso ci serviamo come alibi, non sono certamente meri fantasmi. Compagni di viaggio di cui l’uomo non potrà mai liberarsi, né l’uno né l’altro soltanto, ma tutti e due operano nel procedere della storia umana e di ogni individuo, come esprime bene il protagonista del celebre “Forrest Gump”: “Non lo so se abbiamo ognuno il suo destino o se siamo tutti trasportati in giro per caso come da una brezza…ma io credo, può darsi le due cose, forse le due cose capitano nello stesso momento”. Resta però ancora nell’ombra un terzo attore, quello che svolge la parte principale: è la libertà dell’uomo, quella stessa responsabilità da cui egli talvolta cerca di fuggire. Non sappiamo se abbia ragione Machiavelli quando constata come “la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che ancora ella ne lasci governare l’altra metà, o poco meno, a noi”. Quel che è certo è che la nostra libera facoltà di autodeterminazione si intreccia con l’imprevedibile e l’impensato in quello che Philip Roth nel suo “Indignazione” chiama “il terribile, incomprensibile modo in cui le scelte più accidentali, più banali, addirittura più comiche, producono gli esiti più sproporzionati”. È proprio vero quel che diceva il grande Vico: la storia è fatta tutta dagli uomini e tutta da Dio. Laddove per “Dio”, comunque la si pensi, va inteso tutto ciò che sfugge alle intenzioni dell’agire umano.