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‘American Life’, tra buonismo americano e una regia addolcita

di Marco Chiappetta

TRAMA: Poco più che trentenni, spensierati, innamorati ma non sposati, Burt (John Krasinski) e Verona (Maya Rudolph) aspettano una bambina e partono alla ricerca di un posto ideale per crescerla e vivere felici: un viaggio on the road nell’America, da Phoenix a Tucson, da Madison a Montreal, fino a Miami, incontrando di volta in volta personaggi stralunati e non proprio esemplari.
GIUDIZIO: Prima ancora che un filmetto modesto, scialbo e di dubbio valore, “American Life” (traduzione “italiana” dell’originale “Away We Go”, cambiato chissà perchè) rappresenta la caduta, si spera reversibile, di uno dei più intelligenti e talentuosi registi dell’ultimo decennio, Sam Mendes, l’autore cinico e spietato di “American Beauty”, “Era mio padre” e “Revolutionary Road”, tutti spaccati tragici e disarmanti della famiglia americana. Quelli erano capolavori, pugni nello stomaco, veleno sublime contro il mito felice e inoppugnabile dell’american way, dell’american dream. Cos’è successo allora? È successo che Mendes s’è rabbonito, addolcito, impoverito: qui si parla sempre di famiglia, di America, qua e là il campionario di personaggi è grottesco quanto basta per riderci, ed è qui che il film cade. È una commedia senza brio e senza idee, tradizionalista nella forma e nei contenuti, mediocre e inconcludente come i suoi personaggi. C’è tanto sciroppo e tanto zucchero al posto della solita amarezza disillusa, crudele, del fu grande regista: qui lui cambia idea, annulla la sua poetica, si corrompe con un melenso buonismo, tipicamente hollywoodiano, tipico della mediocrity stelle e strisce, proprio quello che le sue opere precedenti avevano annichilito, contestato, deriso.

Non c’è traccia del genio dell’autore: evaporato, s’è portato via anche la professionalità degli ingredienti che fanno un bel film, dallo script agli attori, dalla fotografia alla colonna sonora, tutto qui ricorda un qualsiasi filmetto indipendente, artigianale, pieno di buone intenzioni e buoni sentimenti. In più, autocompiaciuto: si sforza di essere amabile, dolce, divertente. Gli artifici sono forzati, esasperati, da popolino, di basso profilo: non convince, non dice nulla, non porta da nessuna parte. Che il cinico Mendes ci parli, in toni così lievi e sotto sotto conformisti, della ricerca della felicità, della bellezza della vita, dell’importanza dell’amore, dell’ottimismo a ogni costo, sorprende e delude, perché non ne ha le capacità, non ci crede nemmeno lui. Mostra, non critica, addirittura elogia i suoi protagonisti, esempi di virtù e umanità – anche se anonimi come chi li interpreta -, paladini di un modo di vivere felice e scapestrato, sorridente e idiota: quindi, inconsapevolmente, un’altra mediocrità, diversa, bonacciona, marginale, eppure così normale, così conformista, così piena di speranza e di nulla, che tutti gli spettatori si possono immedesimare, sognando, tirando un sospiro di sollievo, come se “Revolutionary Road” fosse solo un incubo, irreale e impossibile.
VOTO: 2,5/5