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Quando la filosofia è donna

di Gianmarco Botti

Il tradizionale stato di subalternità della soggettività femminile rispetto al cosiddetto “sesso forte” come fenomeno politico e sociale appare in maniera ancor più chiara se lo si considera sul complesso piano della storia della cultura. Inutile dire quanto ristretta sia la presenza delle donne all’interno della cerchia, già assai ridotta, dei cultori di quell’esercizio d’élite che è l’attività intellettuale in tutte le sue forme. Ma un elemento si segnala con particolare evidenza: accanto a un buon numero di scrittrici e poetesse e a non poche pittrici di un certo livello, spicca l’apparente assenza di donne filosofe. La regina di tutte le scienze, la madre di tutti i saperi non avrebbe avuto al suo seguito nessuna mente femminile. Cosa tanto più singolare, se si osserva come nei confronti del gentil sesso i pensatori abbiano avuto per lo più una certa considerazione, in controtendenza con la mentalità corrente: in quella stessa Grecia in cui due secoli prima il poeta Semonide aveva partorito la sua sprezzante satira misogina (celebre è il frammento “Il biasimo delle donne”), Platone delineava la città ideale prevedendo per le donne la stessa educazione degli uomini per svolgere le medesime mansioni. In età ellenistica Epicuro sarà poi il primo ad aprire le porte della sua scuola ad individui altrimenti discriminati come gli schiavi e le donne. Ma dovremo attendere il IV secolo dell’era cristiana per trovare una vera e propria donna maestra di filosofia, oltre che matematica e astronoma: quell’Ipazia di Alessandria che una fonte contemporanea definisce “giunta a tanta cultura da superare di molto tutti i filosofi del suo tempo” e alla quale “accorrevano da ogni parte tutti coloro che desideravano pensare in modo filosofico”. Una figura che sarebbe finita dimenticata se la sua tragica uccisione da parte di fanatici non l’avesse fatta assurgere ad eroina del libero pensiero e se il bel film “Agorà” dello scorso anno non ci avesse raccontato la sua storia. Per onestà va detto che nei secoli successivi ben poche voci, anche da parte filosofica, si sarebbero levate in favore delle donne. E se un’opera del ’700 dal titolo “Sui diritti delle donne” può sembrare troppo scontata perché scritta da mano femminile, quella di Mary Wollstonecraft, colpisce già di più che un uomo, un liberale della caratura di John Stuart Mill, abbia voluto riflettere in pieno ’800 su “La schiavitù delle donne”. Ma va altresì ammesso che ancora per un lungo periodo, se si procede in avanti scorrendo rapidamente le pagine di un manuale di filosofia, non si trovano nomi femminili. Questo almeno fino al ’900, a quel gran mare in tempesta che è stato il secolo delle ideologie totalitarie e delle guerre. In esso si sono stagliate luminose due figure di donna: la tedesca Hannah Arendt e la francese Simone Weil. Entrambe ebree, entrambe costrette a lasciare la loro terra dall’odio nazista, entrambe impegnate per tutta la vita, con la profondità del pensiero e con la forza dell’impegno politico, a contrastare quell’odio e la lugubre mitologia che gli stava dietro. Rispetto ai colleghi maschi, che nel XX secolo si sono dedicati per lo più ai temi del linguaggio e della conoscenza, dell’ermeneutica e della logica, la Arendt e la Weil hanno testimoniato la possibilità di una filosofia militante, di quella “Vita activa” che dà il titolo al capolavoro arendtiano, tutta incentrata sull’uomo e sul suo vivere storico. Concretezza e slancio etico come elementi fondanti di una filosofia al femminile. L’altra faccia della luna, un universo nascosto ma assai complesso che varrebbe la pena di conoscere meglio. Perché non si dica più che la filosofia non è donna. Essa può invece essere ancora raffigurata con le sembianze che Boezio le conferisce nel suo “De consolatione philosophiae”: “una donna dal viso quanto mai venerando, dagli occhi sfolgoranti e penetranti oltre la comune capacità umana, dal vivo incarnato e dall’inesausto vigore – per quanto ella fosse così onusta di anni, da non potersi credere in alcun modo della nostra epoca […] le sue vesti eran fatte, con raffinata destrezza, di sottilissimi fili d’indistruttibile materia […] pur tuttavia le mani di certi violenti avevano lacerato quella veste, e ne avevano asportato tutti i frammenti che potevano. E la sua destra reggeva alcuni piccoli libri, la sinistra uno scettro”.