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Sorpresa David Michod. Il regista australiano convince al debutto

di Marco Chiappetta

TRAMA: Melbourne – Dopo la morte per overdose della madre, il diciottenne Joshua Cody (James Frecheville), detto “J”, timido e distaccato, va a vivere dalla nonna Janine (Jacki Weaver) e dagli zii – Andrew detto “Pope” (Ben Mendelsohn), Craig (Sullivan Stapleton) e Darren (Luke Ford) –, famosi e ricercati criminali, che lo coinvolgono suo malgrado in un vortice terribile di violenza, mentre l’onesto detective Leckie (Guy Pearce) cerca di convincerlo a collaborare con la polizia.
GIUDIZIO: Straordinario, sconvolgente e irresistibile debutto del regista australiano David Michôd, che ha sorpreso, stupito e incantato con un noir di rara suggestione, di perfetta coesione narrativa, di struggente realismo. Con uno stile volutamente asciutto e distaccato, che rifiuta sì pathos e romanticismo ma non la vera poesia, David Michôd mette in scena un racconto cupo di violenza e orrore, strutturato come una tragedia greca e permeato di un pessimismo cosmico, tra colpi di scena e colpi al cuore difficilmente dimenticabili. A metà strada tra Shakespeare e l’ultimo David Cronenberg (quello di “A History of Violence” e “La promessa dell’assassino”), è un dramma puro, senza fronzoli né moralismi, sulla decadenza: quella del giovane e innocente J, quella della famiglia Cody, quella del mondo tutto.
L’uomo, senza umanità, regredisce fino a tornar bestia, feroce e istintiva: e la cosiddetta società civile è solo un aggiornamento moderno del “regno animale”, in cui come sempre i più forti mangiano i più deboli, in cui si lotta brutalmente per la sopravvivenza. Ogni sentimento, ogni contatto umano è estinto. Non c’è morale né moralità, tutti sono condannati a corrompere e a corrompersi. Chi è buono? Chi è cattivo? Nel caos moderno, crudele e spietato, c’è solo una regola: homo homini lupus. Certo, il detective Leckie (il Guy Pearce di “Memento”) sembrerebbe una luce di speranza e onestà, ma a vedere poi come si mettono le cose nel corso del film si capisce che se è vero che il crimine non paga, neanche la legge e la giustizia trovano consolazione.
Il film di David Michôd è assolutamente brillante nel fondere e sintetizzare le varie arti per esporre il suo pensiero nichilista: letteratura, per la ricchezza e la compattezza di storia, personaggi e messaggio intellettuale; teatro, per la cadenza tragica e per il tipo di recitazione; musica, per l’utilizzo eccelso dell’alienante colonna sonora di Antony Partos, che sostituisce alle volte il dialogo e, con le immagini, evoca sensazioni indefinibili; fotografia e pittura, per l’uso delle luci e del’oscurità (ad opera di Adam Arkapaw) e per la costruzione magistrale delle inquadrature, quasi dei quadri in movimento. Questa sintesi, questa fusione, è il cinema: ma qui c’è dell’altro, antropologia, psicologia, filosofia. Da qualsiasi punto lo si guardi, “Animal Kingdom” è un capolavoro: un’opera d’arte singolare, originalissima e con guizzi di genio puro, che lascia senza parole e senza fiato. Se è vero che il merito va accreditato soprattutto all’autore, più maestro che esordiente, non va dimenticato il cast, perfetto e sublime, in una gara di bravura che fa tutti vincenti. Memorabili la morbosità quasi incestuosa della mater familias Jacki Weaver, la bestialità razionale di Ben Mendelsohn, l’alienazione e il distacco di James Frecheville (anche lui all’’esordio, e che esordio!), un inetto apatico che finisce per adattarsi al nuovo habitat naturale: dal folgorante inizio i cui con passività clamorosa si occupa – per modo di dire – della morte della madre, fino al sorprendente finale, è un personaggio ricco di sfumature che prima acquisisce e poi rifiuta una propria coscienza, seguendo di volta in volta chi può dargli il beneficio maggiore. Nemmeno lui vince in questa guerra di tutti contro tutti, perché anche lui è un animale: egoista, feroce, istintivo, forse all’apparenza più candido ma solo per la sua giovane età, una bestia tra bestie, preda e predatore a un tempo, senza via di scampo dalla disperazione dell’esistenza, dell’orrore della sua famiglia e della sua razza. Così si sente lo spettatore durante e dopo il film: condannato, braccato, spaventato, confuso. Questa è la grandezza del regista: comunicare senza spiegare, ma solo mostrando, raccontando con distacco, per non immischiarsi nella paura e nel pericolo, ma per farli vivere a noi in sala. Come un documentario sugli animali, riprende e analizza la vita selvaggia e bruta di questa razza, tra rituali, comportamenti, gesti istintivi e lotte per la sopravvivenza: non critica e non giudica, non vuole dimostrare ma solo mostrare, come fa la vera arte.
VOTO: 4/5