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La generazione fantasma uccisa dalla precarietà

napoli_studentessa_si_suicida_il_giorno_della_laurea82056_640_ori_crop_master__0x0_640x360di Mattia Papa

La notizia è nota: una studentessa si è suicidata. Si è gettata giù dal tetto dell’Università. Era iscritta presso il Dipartimento di Scienze naturali della “Federico II” di Napoli. È successo lunedì 9 aprile. Di pomeriggio. Il silenzio ancora regna sovrano.

Le autorità accademiche tacciono proclamando una giornata di lutto e rimandando tutte le iniziative istituzionali. La comunità studentesca, nello spettrale silenzio delle sedi fridericiane di Monte Sant’Angelo e Piazzale Tecchio, ricorda commossa la collega radunandosi la mattina del 10 aprile. Aveva detto ai genitori che doveva laurearsi, nonostante non avesse ancora conseguito i CFU necessari per accedere alla prova finale. Perché di questo si tratta, di raccogliere, conseguire, totalizzare, vincere, comprare, i crediti necessari per potersi laureare.

Nel silenzio, che può solo accennare il rumore del suo ultimo respiro, si è spenta un’ennesima vittima. Non si può e non si deve certo puntare il dito contro il quasi disturbo che sembra aver causato all’Ateneo la questione, contro un intero sistema universitario che oscilla tra il sembrare una slot-machine di in-formazioni senza fondamento né direzione, e l’assomigliare sempre più verosimilmente ad una fabbrica di riproduzione in serie di saperi atipici e asettici, né tantomeno contro un’intera condizione storico-sociale che ha condannato una generazione alla precarietà.

Se ne sono sentite diverse: “è sempre successo” dicono alcuni; “è colpa sua” dicono altri; “non è mica la prima” aggiungono quelli che, certo, sono i più sagaci. Alcuni compiangono, altri si stringono nel dolore. Qualche post sui social. Articoli. Persino questo editoriale. Perché nessuno sa che dire, e allora tutti diciamo un po’ tutto. E cosa c’è, in fondo, da dire? Siamo nell’era della quarta rivoluzione, dell’infosfera, della politica del tweet, del social-ismo informatico che detta la nostra solitudine disumanizzante.

Ma andiamo con ordine: è vero, non è la prima giovane tra i venti e i trenta anni che si suicida. Cito un caso, non l’ultimo, non il primo. Uno, purtroppo, dei tanti. Michele, trentenne di Udine, l’inverno dell’anno scorso si è tolto la vita. Lo ha fatto lasciando poche righe che qui riporto a singhiozzi: “Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile (…). Il futuro sarà un disastro a cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare. Buona fortuna a chi se la sente di affrontarlo. Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato, e nessuno mi può costringere a continuare a farne parte. È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive. Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. Non sono rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso: io non c’entro nulla con tutto questo. Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile. Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione”.

Michele ha ricordato al mondo, poco più di un anno fa, che questa, quella di noi ventenni e trentenni, non è una generazione che, così, sfugge dai problemi; e che il suicidio non è un accartocciarsi su se stessi rifuggendo da ogni responsabilità il togliersi la vita. Anzi. Ma siccome “di no come risposta non si vive, di no si muore, e non c’è mai stato posto qui per ciò che volevo, quindi in realtà, non sono mai esistito. Io non ho tradito, io mi sento tradito, da un’epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo dovere fare”.

È questa la vera storia. La storia di una generazione tradita, che vive ogni spiraglio della propria vita e della propria intimità tra eccessi di entusiasmo senza vedervi un senso, depressioni e varie patologie – da crisi di panico alle ulcere – e che costantemente però vede la banale accusa di coloro che sono sempre “meno”: meno bravi di chi ci siede accanto; meno forti di chi ci ha preceduto; meno pronti ad affrontare la vita; meno capaci di agire; meno interessati, colti, informati, etc. Il “meno” come motivo significante di una generazione, come espressione di ciò che dovrebbe essere la nostra più intima natura. Il “meno” come “segno” di ciò che siamo.

Ma come spiegarlo che l’esser-meno, essere persino “meno di niente”, vuol dire esser sempre pronti ad andare verso qualcosa, a riempire i propri vuoti, a colmare il proprio silenzio? Come dirvelo che il grido dell’ultimo salto o il disperato pianto di chi si chiude in casa e angosciosamente cerca di uscire e vivere una vita che nessuno intorno capisce, sono i rigurgiti di un fallimento, non il nostro, il vostro? Come spiegarvelo a voi che avete già deciso che abbiamo torto, che l’esser meno, ammesso che questo siamo, non è nulla che discordi dalla forza straripante che vorremmo far esplodere nel mondo, troppo stretto se è quello che voi ci avete costruito (quello dei crediti formativi, dei voucher, delle diete-tipo, della socialità “social”, della claustrofobia da precarietà, delle solitudini mute, dalle violenze nascoste)?

Giada – è così si chiamava – non ha retto. O forse ha scelto. È, in ogni caso, una colpa? Michele ce lo ricordava: “sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po’. Basta con le ipocrisie”. Basta: “non mi faccio ricattare dal fatto che è l’unico possibile, io modello unico non funziona. Siete voi che fate i conti con me, non io con voi. Io sono un anticonformista, da sempre, e ho il diritto di dire ciò che penso, di fare la mia scelta, a qualsiasi costo. Non esiste niente che non si possa separare, la morte è solo lo strumento. Il libero arbitrio obbedisce all’individuo, non ai comodi degli altri”.

Lo spazio di questo editoriale è già finito, ma non ancora abbastanza da non rimandare all’analisi dei dati ISTAT sull’occupazione e la disoccupazione giovanile, sulle tipologie di contratto più usate nel nostro Paese, sui NEET, sul decremento di iscrizione all’Università, sulle scuole chiuse, etc. E questo solo per fare un esempio. Di questioni, a questo mondo, in questa particolare epoca, ce ne sono appena si gira l’angolo, ovunque il proprio sguardo incontra la sofferenza dell’altro. Ovunque esiste chi si trova chiuso e vorrebbe uscire, dove si vorrebbe gridare ma bisogna piegarsi al modo in cui le cose devono andare: una generazione che dell’incertezza ne ha fatto un abitus, della trasformazione farà missione. E dei compagni caduti si porterà il ricordo e il loro nome fino a quando la libertà non sarà più lo spettro dietro cui giustificare la precarietà, ma la reale possibilità di scegliere e scegliersi, di essere come si è, partendo dal non quantificarsi dal numero di CFU “totalizzati”.