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“Chiamami col tuo nome”: l’educazione sentimentale gay nell’Italia vintage anni ‘80

locandinadi Marco Chiappetta

TRAMA: Estate 1983 – Quando il giovane e aitante dottorando americano Oliver (Armie Hammer) giunge come ospite nella villa della campagna cremasca del suo professor Perlman (Michael Stuhlbarg) e di sua moglie Annella (Amira Casar), intellettuali italo-americani ebrei, il loro figlio diciassettenne Elio (Timothée Chalamet) ne subisce il fascino e instaura con lui una torbida, intensa, passionale storia d’amore lunga una stagione.

GIUDIZIO: Tratto dal romanzo di André Aciman (in realtà ambientato sulla riviera ligure), adattato per lo schermo da James Ivory, il film di Luca Guadagnino, regista ben più conosciuto e apprezzato negli States che da noi, è un tipico romanzo di formazione, sentimentale e sessuale, che, seppur non originalissimo e un po’ laccato nella sua estetica patinata in pellicola, ha la grande qualità di saper raccontare questo amore estivo omosessuale attraverso un gioco, anche visivo, di suggestioni, sensazioni, impulsi, e soprattutto di atmosfere, quelle piuttosto inedite della campagna cremasca negli anni ’80, ricostruite con un manierismo vintage (nei costumi, nelle scenografie, nelle canzoni) sicuramente efficace. Con raffinatezza il film riesce a evocare più che a mostrare la sensualità torbida di questo rapporto omosessuale e del percorso di crescita di Elio, ma cede qua e là alla malizia pruriginosa e solo una volta alla provocazione vera e propria (la scena della pesca, degna di Bertolucci), comunque soddisfacendo i suoi propositi di autenticità e sincerità grazie a una regia sentita, quasi naif e da Nouvelle Vague, e un cast davvero in parte. Nell’economia generale del film, però, qualcosa resta di artefatto e irritante: il piccolo mondo idilliaco ozioso e superficiale senza problemi né conflitti, la pretenziosità antipatica di una famiglia radical chic liberal e poliglotta (che legge Le Monde e Dante, fuma spinelli, inneggia all’amore libero, disquisisce di Parassitele e traduce all’impronta il tedesco), le cartoline italiane degne di un qualsiasi film hollywoodiano (le irrinunciabili Vespe ovunque, commensali macchiettistici gesticolanti che parlano di Craxi e compromesso storico, servi con nomi anacronistici come Mafalda e Anchise) e più in profondo una retorica, se non buonista quanto meno all’acqua di rose, a mo’ di paternale, sull’amore vero che dopo 130’ rischia la ridondanza. Il film ha il sapore e la malinconia di un’estate che finisce, dei capelli ancora bagnati, della musica di pianoforte che lo riempie e degli occhi del suo magnifico protagonista Timothée Chalamet (meraviglioso nell’inquadratura finale), ma qualcosa in fondo, da qualche parte, gli impedisce di diventare un film davvero speciale e unico.

Straordinarie le canzoni di Sufjan Stevens, “The Mystery of Love” e “Visions of Gideon”, scritte appositamente per il film.

VOTO: 3/5