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“Manchester By The Sea”, Casey Affleck da Oscar nella tragedia intimista e universale di un uomo

53414di Marco Chiappetta

TRAMA: Lee Chandler (Casey Affleck), custode tuttofare di un condominio a Boston, riceve la notizia che il fratello Joe (Kyle Chandler), malato di cuore, è improvvisamente morto di infarto. Giunto nella natia cittadina di Manchester by the Sea per occuparsi delle questioni burocratiche, Lee viene nominato tutore del nipote adolescente Patrick (Lucas Hedges), una responsabilità troppo grande per lui, ancora tormentato da un tragico episodio del passato dal quale non si è mai più ripreso e con cui, ora che è tornato nella sua città, dovrà fare nuovamente i conti.
GIUDIZIO: Terzo film di Kenneth Lonergan, autore per lo più teatrale, è un dramma insieme intimista e corale sul dolore universale di un uomo, ma anche di una famiglia e di una comunità, un microcosmo – quello della cittadina marittima del titolo – specchio della vita umana, violenta e terribile come le onde e come le fiamme. Con una regia sobria, delicata, quasi invisibile, e una scrittura drammaturgica di encomiabile precisione, Lonergan disegna un universo umano di straziante verità, offrendo una visione personale e sentita, priva di fronzoli e di retorica, dei temi tragici per antonomasia: il senso di colpa, la ricerca impossibile di redenzione, il dolore infinito della perdita. L’equilibrio dello stile, dei dialoghi, del disegno dei personaggi, della struttura narrativa incanalata con flashback davvero realistici (ricordi nati, come nella vita reale, da associazioni di idee e rimandi improvvisi), permette all’emozione di insinuarsi lentamente, a poco alla volta, senza forzare un pathos già insito nell’ossatura della storia, lavorando di sottrazione, di piccoli dettagli e suggestioni (come la barella difettosa e il pollo surgelato nel freezer), di sguardi, di silenzi, di piccoli venti di ironia (l’impossibilità kafkiana di copulare del “bigamo” Patrick), di percezioni intime, con un uso discreto della musica e un rifiuto netto di cliché, patemi sensazionalisti, mezzucci strappalacrime, preferendo poeticamente ed eticamente i campi lunghi ai primi piani. È un’emozione sottocutanea, misurata, dolcissima e pura, che una volta assorbita rischia di non abbandonare mai lo spettatore.
Casey Affleck, attore sublime meravigliosamente sotto le righe (e giustamente premiato con l’Oscar, così come la sceneggiatura), non recita, ma vive il personaggio, con una verità così dolente da essere a tratti insostenibile: l’incomunicabilità del dolore passa attraverso il suo sguardo spento, i suoi occhi tristi, i suoi pugni contro tutto e tutti, i suoi silenzi eloquenti, compiendo il miracolo di un’empatia quasi simbiotica, ingombrante e commovente. È l’uomo disperato, colui che non ha niente da perdere e niente per cui vivere, contrapposto a un nipote che ha invece tutta la vita davanti (e di cui dovrebbe, ma non può, occuparsi), a un’ex moglie (Michelle Williams, memorabile e struggente in una scena da antologia) che crede ingenuamente di essere rinata ma ha ancora e per sempre il cuore spezzato. In un finale timidamente magnifico, che ha come tutto il film il ritmo e il tono di un adagio sostenuto, le tempeste di neve, le bufere, le onde, le fiamme si placano, si intravede il futuro, ma il passato non si cancella e i nuovi dolori non sostituiscono quelli vecchi, perché così è davvero la vita e questo film l’ha raccontata.
VOTO: 4/5