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“La battaglia di Hacksaw Ridge”, Mel Gibson torna con un film bellico di rara potenza

53449di Marco Chiappetta

TRAMA: Seconda Guerra Mondiale – Il giovane medico Desmond Doss (Andrew Garfield), nativo della Virginia, si arruola nell’esercito non come soldato, ma come obiettore di coscienza, rifiutando di toccare armi e deciso a salvare quante più vite umane. Contro il volere del padre alcolizzato Tom (Hugo Weaving) e della fidanzata Dorothy (Teresa Palmer), dopo un duro addestramento Desmond parte per il Giappone, agli ordini del sergente Howell (Vince Vaughn) e del capitano Glover (Sam Worthington), sottovalutato e emarginato da tutto il plotone, finché, nella sanguinosa battaglia di Okinawa e nella presa di Hacksaw Ridge, non si rivelerà essere un eroe, decisivo e provvidenziale.
GIUDIZIO: Quinto film da regista di Mel Gibson, lontano dalla macchina da presa da dieci anni, conferma una volta di più la potenza del suo stile e del suo sguardo, crudo, violentissimo, senza compromessi, fatto di un realismo sanguinoso e disturbante. Le sequenze di guerra, circa metà del film, sono di una forza cinematografica rara, lontana dalle edulcorazioni fumettistiche tipiche di Hollywood: la violenza grafica, ai limiti del gore e del sadismo, è fisica, vera e per questo angosciante, frutto di un meticoloso e straordinario lavoro di regia e montaggio. Ciò che lo differenzia da tanti altri film del genere, è il coraggio e l’umanità di una regia che non arretra davanti a nulla, facendoci sentire là sul campo di guerra, carpire tutto l’orrore della violenza, vederla con gli occhi di un testimone pacifico, provare empatia per tutti i morti, che non sono solo semplici corpi caduti, bruciati, o mutilati come in un videogioco, ma anime vere il cui dolore diventa il nostro. Certo, al di là delle magistrali e spettacolari sequenze d’azione, il film non si scrolla di dosso nemmeno per un attimo la patina retorica americana, dalla prima parte a metà tra Frank Capra e John Ford (con i cliché della vita di provincia, la ragazza acqua e sapone, il padre alcolizzato, l’eroe nascosto dietro l’uomo qualunque, oltre al tipico cameratismo degli addestramenti militari), all’onnipresenza ossessiva della fede cristiana fino all’inevitabile gonfissimo patriottismo, con una morale finale altrettanto ovvia: la guerra è un orrore, sì, ma comunque vada gli americani sono i buoni, i migliori, gli eroi. Ma a parte qualche momento obiettivamente esagerato (Doss che scaccia e calcia granate in stile shaolin, o quando, ferito, chiede ai compagni in pericolo di recuperare la sua Bibbia perduta sul campo), è un’opera potente ed avvincente, indubbiamente umana, vicina al Clint Eastwood del poetico dittico su Iwo Jima e lontana anni luce dal suo guerrafondaio “American Sniper”. Inevitabile finale didascalico con il vero Doss che racconta e ripete le sue gesta già viste nel film, nel caso qualche spettatore non vi avesse creduto.
VOTO: 3,5/5