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“Silence”: la cecità della fede e il silenzio di Dio nell’ultimo film di Martin Scorsese

Silence_PosterFilm_Scorsesedi Marco Chiappetta

TRAMA: XVII secolo – Due giovani padri gesuiti portoghesi, Rodrigues (Andrew Garfield) e Garupe (Adam Driver), partono alla volta del Giappone in cerca del loro mentore padre Ferreira (Liam Neeson), apparentemente reo di apostasia e dato per disperso, ma anche per diffondere la dottrina cristiana. Si scontreranno invece con un mondo agli antipodi, tradizionalista e buddista, che mal vede e perseguita i cristiani, costringendoli a umiliazioni e sofferenze per ottenerne l’abiura o per eliminare il pericolo che rappresentano.
GIUDIZIO: Testamento spirituale più che artistico di Martin Scorsese, da un soggetto (l’omonimo romanzo di Shusaku Endo) che l’ha ossessionato da sempre, è un film personale, quasi privato, diretto con uno stile più minimalista e meno acrobatico, un ritmo denso e lontano dal suo proverbiale dinamismo, però incentrato su un tema che, più o meno in sordina, ha sempre permeato i suoi film: la fede e il rapporto dell’uomo con Dio. A differenza di “Kundun” (1997), il film che realizzò sul Dalai Lama, Scorsese fa qui un film altrettanto monumentale, ma più attento all’aspetto spirituale che a quello storico, incentrando il conflitto sul silenzio di Dio e l’ostinazione di chi ne cerca la voce, accecato dalla credenza, secondo un’ottica indubbiamente parziale e cattolica, ben diversa da quella cinica e atea di Ingmar Bergman, a cui pure si ispira. Pur se appesantito da una lentezza contemplativa inedita, è un’opera avvolgente e affascinante, esteticamente sublime, ricca di invenzioni sonore (la consistenza del silenzio, la voce di Dio) e visive (geometrie alla Kurosawa, dialettica dei primi piani e la scena memorabile di Rodrigues che specchiandosi nel riflesso dell’acqua vede il volto di Gesù), laddove l’aspetto narrativo, lineare e tirato per le lunghe, è un po’ piatto e il contenuto è ideologicamente discutibile: la dedica finale ai cristiani giapponesi del ‘600 stride se si pensa alla violenza, fisica e morale, imposta al mondo dai gesuiti e dai cristiani nella storia dei secoli. Ma a differenza del consimile “Mission” (1986) di Roland Joffé la visione dello scontro violento tra civiltà e culture diverse manca fortunatamente di retorica e fastosità, e Scorsese, pur chiaramente tifando per i cristiani, traccia un quadro quanto mai dolente e attuale dell’orrore del fanatismo e dei conflitti religiosi, senza dare risposte ma scegliendo la pista dell’ambiguità, tanto da lasciare fino alla fine dei dubbi sul personaggio di Andrew Garfield (attore sufficiente) e sul perché della sua ostinazione (vera e sincera fede? cecità intellettuale? indottrinamento? Sembra quasi il predicatore Paul Dano in “Il petroliere”). Difetto venale nel complesso ma indice di poca coerenza verso il rigore di realismo che si impone, il film è recitato in un inglese americano poco credibile per i personaggi portoghesi e ancor meno per i giapponesi del tempo, ed è stato girato a Taiwan, non in Giappone (come del resto già il sopracitato “Kundun”, parlato in inglese e ambientato in Marocco invece che in Tibet).
VOTO: 3/5