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“È solo la fine del mondo”: huis clos isterico e teatrale in perfetto stile Xavier Dolan

locandinadi Marco Chiappetta

TRAMA: Louis (Gaspard Ulliel), scrittore gay, decide di tornare a casa dopo dodici anni di assenza per comunicare alla propria famiglia la sua morte imminente. Ma nella casa di campagna la riconciliazione con la madre (Nathalie Baye), la sorella Suzanne (Léa Seydoux), il fratello psicotico Antoine (Vincent Cassel) e la moglie Catherine (Marion Cotillard) risveglia antiche sensazioni e tensioni, tali da rendere difficile rivelare il suo doloroso segreto.
GIUDIZIO: Il sesto film del canadese Xavier Dolan (1989), premiato col Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes di cui è ormai un habitué, racconta ancora una volta le tensioni di una famiglia disfunzionale e l’identità (autobiografica?) di un diverso contro un mondo ostile, ma dilatando il dramma da una dimensione intimista a una corale, ambientandolo tutto in un interno teatralissimo – rispettando la pièce di Jean-Luc Lagarce da cui è tratto – e a dir poco claustrofobico, complice anche una rigorosa dialettica di campo-controcampo e insistenti primi piani che lascia poco spazio all’ambiente e tanto, troppo, ai volti dei personaggi, autentico paesaggio della storia. Nel ripetere le dinamiche drammatiche del suo cinema, il regista, pur con uno spirito lievemente più sobrio e cupo, indulge ancora nei suoi limiti e nei suoi eccessi: scrittura e direzione degli attori isterica e istrionica, dialoghi lunghissimi e vuoti di contenuto, trama esile e piatta, musica invadente e melodrammatica, intermezzi di estetica ultramoderna a metà tra videoclip MTV e spot di un profumo come i flashback laccati e ruffiani che su un sottofondo di musica pop cafonissima (c’è persino la pessima hit moldava del 2002 “Dragostea Din Tei”) vorrebbero dire qualcosa di più sul protagonista, qualcosa che la sceneggiatura non si sforza di comunicare. Il plot, un ritorno a casa dopo un lungo esilio e le tensioni di una famiglia in crisi, non è nuovo né al cinema né al teatro, e Dolan vi costruisce attorno una drammaturgia domestica banale e ripetitiva costruita sull’urlo come metodo quasi esclusivo di comunicazione e su uno schema semplicissimo: a parte due o tre scene corali, il protagonista interagisce con gli altri personaggi uno a uno, uno dopo l’altro, in lunghe sequenze ellittiche straparlate e verbose, con scambi di battute tutt’altro che dinamici che non rivelano nulla dei personaggi a parte il loro schematismo – madre materna, fratello pazzo, sorella drogata/complicata, cognata dolce/goffa – ma non l’entità del rapporto con o contro il protagonista. Gli attori, bravi, sin troppo, recitano sopra le righe, come sguinzagliati, ognuno alle prese con un personaggio scialbo (su tutti Marion Cotillard) o irritante (specie un Vincent Cassel inspiegabilmente insopportabile, da prendere a pugni), scritti davvero male. I motivi di tanta tensione, di tanta disfunzione, di tale addio, di tale mancata confessione, restano non detti, ma nemmeno intuibili, non si sa nulla del protagonista e di ciò che lo lega o lo separa dalla sua famiglia. L’attesa di un’evoluzione drammatica o di un’introspezione di questi rapporti resta delusa, e il film finisce con un nulla di fatto, un’incompiutezza voluta e ricercata, inaccettabile viepiù perché non traspira alcuna ambiguità, alcuna seconda lettura: un epilogo semplicemente tronco, moscio, brusco, lineare con tutta la noia precedente, che arriva dopo un’ultima rissa verbale immotivatamente violenta e tesa, persino lacrimogena e strappalacrime, dove anche il bastardo Vincent Cassel forse scopre una fragilità. Ciò che è peggio, che è meno riuscito, è che in un film costruito tutto sui dialoghi, sulle psicologie, su una recitazione sovreccitata non traspaia un solo momento di vera emozione, e che tutto, persino i momenti di regia più evocativi e l’uso delle luci, sia frutto di un calcolo freddo e asettico, di un cuore che non palpita.
VOTO: 1,5/5