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“Room”: traumatismo e meraviglia del mondo in un dramma intimista e claustrofobico

locandinadi Marco Chiappetta

TRAMA: Prigioniera in una stanza angusta da sette anni, Joy (Brie Larson) insegna al figlioletto di cinque anni Jack (Jacob Tremblay) la bellezza di un mondo che non ha mai potuto vedere. Quando, con uno stratagemma, riescono a evadere dalla prigionia di Old Nick (Sean Bridgers), l’uomo che li ha sequestrati, il ritorno alla realtà di lei e la scoperta del mondo da parte del bambino non saranno facili, ma contaminate dalle cicatrici del trauma passato e indimenticato.
GIUDIZIO: Tratto dal romanzo di Emma Donoghue, che lo ha anche sceneggiato, il film dell’irlandese Lenny Abrahamson è strutturato in due parti, l’una claustrofobica e opprimente girata in 11 metri quadri relativa alla quotidianità della prigionia, l’altra nel mondo “reale” non meno ostile per chi vive eternamente nel trauma, ma pieno di scoperte per un bambino che lo aveva solo immaginato. È un dramma originale, dal grande, indubbio impatto emotivo, grazie a due protagonisti assai toccanti (Brie Larson ha meritato davvero l’Oscar) e a una sceneggiatura attenta a raccontare le reazioni post-traumatiche di una donna segregata e violentata per anni, che pure ha mantenuto a lungo la forza, la dignità, il coraggio, di una madre modello, comparandole alla meravigliosa scoperta del mondo, visto con gli occhi di un bambino come se fosse appena nato. Lo stile registico, sporco e movimentato, con primi piani e un uso irrefrenabile della camera a mano, è funzionale a trasmettere l’intima angoscia del racconto, specie nella prima, riuscitissima parte nella stanza-cella, che crea autentico malessere e una claustrofobia al limite del sopportabile. La sequenza dell’evasione di Jack è liberatoria ma soprattutto emozionante: il suo sguardo dal furgone rivolto a un cielo vero, davvero azzurro e immenso, è pura poesia. Dopo questi azzardi e queste premesse, il film perde un po’ della sua forza e nel raccontare la riabilitazione al mondo reale (e relativa scoperta) dei due prigionieri fa ricorso a espedienti drammatici più convenzionali, da lacrima facile, e anche lo stile sbarazzino ha meno ragion d’essere. In un certo senso, confrontandosi alla realtà di tutti i giorni, l’intrigo si appiattisce, limitandosi a documentare più che a raccontare. Se lasciare sullo sfondo i dettagli violenti del trauma e la figura dell’antagonista Old Nick è una scelta felice e anti-sensazionalista, qualche buco resta, vedasi il personaggio del padre di Joy (William H. Macy in brevissimo cameo), che si alza da tavola senza motivo e non sappiamo il perché (non lo rivedremo più). Nel complesso, un ottimo film intimista, insolito e disturbante, dimostrazione della ricchezza del cinema indipendente americano, sempre attento alle voci della realtà.
VOTO: 3,5/5