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Il terremoto dell’Irpinia, 35 anni dopo: una ferita ancora aperta

Fate-Prestodi Stefano Santos

Alle 19,34 di trentacinque anni fa, il 23 Novembre 1980, la terra tremò per novanta secondi. La scossa fu avvertita in gran parte del paese. Le prime notizie provennero da comuni tra la Campania e la Basilicata e raggiunsero la sala operativa del Ministero dell’Interno (al tempo non erano stati ancora attuati i regolamenti che avrebbero reso operativa la Protezione Civile). “Danni limitati” e un “imprecisato numero di vittime” fu il contenuto dei primi comunicati trasmessi alla stampa. Ulteriori notizie giunsero dall’Osservatorio sismico di Monte Porzio Catone (Roma) in cui venne identificato l’epicentro tra il Salernitano, l’Irpinia e la Lucania e quantificata l’entità della scossa tra il nono e il decimo grado della scala Mercalli (poi 6,9 della scala Richter) – un evento completamente distruttivo. La notizia, trasmessa dal dott. Rodolfo Console insospettito dalla scossa che aveva avvertito mentre si trovava a casa (l’Osservatorio era chiuso di Domenica), contribuì a virare l’opinione pubblica verso scenari potenzialmente più disastrosi. L’incertezza era ulteriormente alimentata dal fatto che il terremoto aveva interrotto le comunicazioni da quell’area, impedendo ogni contatto diretto. Notizie parziali riuscivano a filtrare grazie all’attività dei radioamatori della zona.
I primi a rendersi conto dell’effettiva portata distruttiva del terremoto furono gli inviati del Corriere della Sera nella zona dell’epicentro, assieme a una prima squadra di pompieri mandati da Roma su impulso dell’ispettore capo dei Vigili del Fuoco di Roma, Alessandro Giomi, che giunsero in Irpinia nelle primissime ore del 24 Novembre. La distruzione era già evidente nel centro storico di Avellino, dove la Prefettura era crollata e il prefetto si era visto costretto a spostare gli uffici in una caserma, ma essa si fece più evidente avvicinandosi all’epicentro nell’Alta Irpinia (S. Angelo dei Lombardi, Lioni, Teora, Caposele, Calabritto, Pescopagano).

Sono le 7,45 di lunedì 24, 12 ore dal sisma, a Teora, nell’Irpinia, tre chilometri da Avellino non è ancora giunto nessun soccorso. I superstiti piangono davanti alle montagne di macerie da cui escono urla strazianti o flebili invocazioni.

[Cesare De Simone – 25 Novembre]

Oltre alla distruzione, a colpire i cronisti presenti fu soprattutto l’assenza di soccorsi a diverse ore di distanza dall’evento. Essi furono infatti i primissimi ‘forestieri’ ad arrivare in quella parte d’Italia, venendo anche scambiati per i primi soccorsi. Un anziano di Lioni intervistato da Ulderico Munzi disse che “non si è visto nemmeno un cristiano in divisa – cioè lo Stato – che sia venuto a Lioni per soccorrerci”. “Ma come, siete i primi che vedo” singhiozza invece un geometra di Avellino. Subito si palesa agli occhi dell’opinione pubblica una evidente inadeguatezza e ritardo dei mezzi dispiegati dalle alte sfere dello Stato. Il ministro dell’Interno Rognoni farà ritorno a Roma solo nella mattinata, effettivamente mettendo in moto la macchina dello Stato solo per il 25 Novembre, come verrà evidenziato dal servizio televisivo di Carla Mosca per il GR1 di Rai 1, che mostra anche la mancanza delle cellule fotoelettriche – essendo impossibile scavare al buio – e delle seghe elettriche per tagliare i cavi di metallo che intrappolano le persone. La frustrazione delle popolazioni colpite viene catalizzata da una delle prime pagine forse più iconiche della nostra storia – il FATE PRESTO scritto a caratteri cubitali del Mattino del 26 Novembre. Il governo Forlani è bersagliato da interrogazioni parlamentari sempre più pressanti in cui si fa evidente il distacco tra le cifre ufficiali che esso rende pubbliche e la realtà dei fatti testimoniata dalle centinaia di migliaia di sfollati e dallo stesso Presidente della Repubblica Pertini il quale in un discorso trasmesso in diretta televisiva non esita a denunciare le carenze e le inadempienze della macchina dei soccorsi:
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“…a distanza di 48 ore, non erano ancora giunti in quei paesi gli aiuti necessari. E’ vero, io sono stato avvicinato dagli abitanti delle zone terremotate che mi hanno manifestato la loro disperazione e il loro dolore, ma anche la loro rabbia. Non è vero, come ha scritto qualcuno che si sono scagliati contro di me, anzi, io sono stato circondato da affetto e comprensione umana. Ma questo non conta. Quello che ho potuto constatare è che non vi sono stati i soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci. Ancora dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazione di sepolti vivi. E i superstiti presi di rabbia mi dicevano: ‘ma noi non abbiamo gli attrezzi necessari per poter salvare questi nostri congiunti, liberarli dalle macerie’.”

“Nel 1970 in Parlamento furono votate leggi riguardanti le calamità naturali. Vengo a sapere adesso che non sono stati attuati i regolamenti di esecuzione di queste leggi. E mi chiedo: se questi centri di soccorso immediati sono stati istituiti, perché non hanno funzionato? Perché a distanza di 48 ore non si è fatta sentire la loro presenza in queste zone devastate?”

“Vi è anche questo episodio che devo ricordare, che mette in evidenza la mancanza di aiuti immediati. Cittadini superstiti di un paese dell’Irpinia mi hanno avvicinato e mi hanno detto: ‘Vede, i soldati ed i carabinieri che si stanno prodigando in un modo ammirevole e commovente per aiutarci, oggi ci hanno dato la loro razione di viveri perché noi non abbiamo di che mangiare’. Non erano arrivate a quelle popolazioni razioni di viveri. Quindi questi centri di soccorso immediato, se sono stati fatti, ripeto, non hanno funzionato. Vi sono state delle mancanze gravi, non vi è dubbio, e quindi chi ha mancato deve essere colpito, come è stato colpito il prefetto di Avellino, che è stato rimosso giustamente dalla sua carica. Adesso non si può pensare soltanto ad inviare tende in quelle zone. Sta piovendo, si avvicina l’inverno, e con l’inverno il freddo. E quindi è assurdo pensare di ricoverarli, pensare di far passare l’inverno ai superstiti sotto queste tende. Bisogna pensare a ricoverarli in alloggi questi superstiti. E poi bisogna pensare a una casa per loro. Su questo punto io voglio soffermarmi, sia pure brevemente. Non deve ripetersi quello che è avvenuto nel Belice.”

“Perché un appello voglio rivolgere a voi, italiane e italiani, senza retorica, un appello che sorge dal mio cuore, di un uomo che ha assistito a tante tragedie, a degli spettacoli, che mai dimenticherò, di dolore e di disperazione in quei paesi. A tutte le italiane e gli italiani: qui non c’entra la politica, qui c’entra la solidarietà umana, tutte le italiane e gli italiani devono mobilitarsi per andare in aiuto a questi fratelli colpiti da questa nuova sciagura. Perché, credetemi, il modo migliore di ricordare i morti è quello di pensare ai vivi».”

Le severe parole del Presidente suscitarono immediatamente le dimissioni del ministro dell’Interno Virginio Rognoni, poi rifiutate da Forlani su impulso anche dello stesso Pertini. Ma anche uno sforzo umanitario senza precedenti: governi di tutto il mondo donarono denaro e mezzi e giovani da tutta Italia si riversarono in Irpinia per far fronte all’emergenza. La squadra di soccorso del comune di Bologna fu la prima a raggiungere Potenza; gruppi di soccorso furono organizzati dalle regioni Toscana, Emilia Romagna, Lombardia e Lazio; a sinistra la FGCI (la Federazione Giovanile Comunista Italiana) creò il Centro Operativo Nazionale e Giovanile per coordinare le attività dei volontari; l’associazionismo cattolico e democristiano si organizzò sotto la guida della Caritas.

Il Corriere titolò così “Le vie dei soccorsi verso il sud sono infinite. Partono da Milano, non passano per lo stato”, mentre Leonardo Vergani scrisse sul Corriere della Sera del 25 Novembre “l’Italia buona, onesta, umile, l’Italia della solidarietà sommersa viene a galla in giorni terribili come questi. Nei luoghi dove il terremoto ha ucciso e ferito i volontari non si contano… i radioamatori formano una catena di invisibili parole di soccorso…l’Italia del Palazzo ha perso troppe volte la faccia”.

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Il rapporto tra questi volontari e le popolazioni non fu sempre positivo – si registrarono anche casi di fogli di via all’indirizzo dei primi – ma è certo che contribuì a alleviare per un momento le sofferenze degli sfollati che in quei giorni si contavano nell’ordine del quarto di milione. Genti contadine come nel caso dell’Irpinia, diffidenti verso la stato e attaccate alle tradizioni rurali che forse non furono capite dalle autorità, come fu nel caso del cosiddetto “piano s” elaborato dal commissario straordinario Giuseppe Zambrelletti che prevedeva il trasferimento di 300.000 sfollati nelle pensioni di Campania, Calabria, Basilicata e Puglia nell’attesa del completamento dei prefabbricati – piano fallito per la resistenza dei terremotati da un lato e dei proprietari di quegli alberghi.
Sebbene il grosso dei danni e delle vittime fu concentrato nelle zone interne dell’Irpinia, il terremoto del 1980 mise Napoli – e l’intera sua area metropolitana – davanti alle sue contraddizioni e criticità, come più volte è successo nel corso della sua storia. Sebbene fu solo il condominio in via Stadera a essere distrutto dal sisma, l’intera città si indebolì quasi mortalmente. Decenni di speculazione avevano prodotto un ambiente urbano precario, sensibile alla minima perturbazione, abitato da persone ancora di più precarie dal punto di vista economico e sociale. Il terremoto effettivamente ‘espulse’ – rendendo inservibili migliaia di case ma anche di esercizi commerciali e di piccola industria e artigianato – una grossa fetta della cittadinanza, facendo ingrossare quelle file del sottoproletariato contemporaneamente causa e soluzione dei problemi della città. I senzatetto passarono da 15mila a 50mila. Si inasprì la lotta per il diritto a una casa, proprietari contro disperati, assegnatari contro altri assegnatari. Rese più rapido il processo di alienazione sociale nelle periferie, creando le premesse per il degrado di zone come il Rione Luzzatti e le Vele di Scampia.
Le holding criminali non stettero di certo a guardare, fiutando quasi istantaneamente le opportunità di guadagno indebito che avrebbero portato sia la gestione dell’emergenza che il controllo dei flusso di denaro per la ricostruzione e lo sviluppo industriale. Parallelamente in quegli anni stava per avere inizio della guerra tra la Nuova Camorra Organizzata e la Nuova Famiglia; l’assassinio di Marcello Torre nelle settimane successive al terremoto per il suo dissociarsi dalle holding criminali di Pagani; l’esplosione dell’esclusione sociale che alimenta le file della manovalanza camorristica.
Nel 1991 la Commissione d’inchiesta presieduta dal futuro Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro presentò la sua relazione finale al Parlamento. L’importanza di questo documento è dovuta al fatto di essere una sorta di posizione “ufficiale” dello Stato sulla gestione dell’emergenza e della ricostruzione conseguente. Nei suoi punti essenziali:

  • Evidenziato un continuo incremento del fabbisogno finanziario originariamente delineato dalla legge ‘organica’ n. 219 del 14 Maggio 1981 che ha giustificato i consistenti rifinanziamenti nelle leggi finanziarie degli anni 1985-1988. Nella legge finanziaria del 2007 è stato previsto un contributo quindicennale di 3,5 milioni di euro all’anno. Continua a essere applicata una accisa di 4 centesimi su ogni litro di benzina.
  • Finanziamento alla ricostruzione e lo sviluppo da parte dello Stato quantificabile in 50.902 miliardi di lire. 32 miliardi di euro secondo una relazione della Corte dei Conti nel 2008, rivalutati a 66 miliardi di euro al valore del 2010 in un secondo studio.
  • L’ingiustificato protrarsi degli interventi cosiddetti di emergenza e la mancanza di ogni efficace coordinamento tra questi e la legge 219.
  • Adozione dei piani e dei programmi spesso incongrua sotto il profilo della qualità dello strumento, in ritardo rispetto alle scadenze, non definitiva e quindi incapace di definire il necessario quadro di certezze.
  • Ricostruzione in senso stretto (risoluzione del problema dei senza tetto) vicna alla conclusione, salvo per alcuni comuni in cui si è ancora alla fase di avvio; in senso lato ancora a un terzo del cammino, essendo necessari ulteriori 30.000 miliardi con centri storici non ricostruiti e spesso con demolizioni devastanti.
  • Industrializzazione insoddisfacente a causa sia di condizionamenti esterni che a causa delle modalità di attuazione.
  • Completamento di 20.000 alloggi ostacolato dalle occupazioni abusive, difficoltà logistiche e la esposizione a un vandalismo anche distruttivo.
  • I vantaggi derivanti dai trasferimenti di spesa pubblica acquisiti anche dalla economia criminale che ha ampliato notevolmente il suo raggio d’influenza.
  • Impatto particolarmente negativo sotto il profilo ambientale, dalle grandi opere infrastrutturali, le aree industriali, alle demolizioni e gli sbancamenti compiuti dai comuni.

Solo una politica attenta, trasparente e responsabile avrebbe potuto evitare una catastrofe sociale. Invece ci fu un flusso di denaro contemporaneamente senza criterio e burocratizzato all’inverosimile a dominare le intenzioni dei legislatori, esposto agli appetiti delle clientele delle classi dirigenti locali e alle grinfie della criminalità organizzata che in quegli anni stava attraversando una fase di trasformazione genetica – da il Padrino a Gomorra.

Il bilancio finale fu di 687 comuni colpiti – 542 in Campania, 131 in Basilicata e 14 in Puglia – di cui 37 “disastrati”, 314 “gravemente danneggiati” e 336 “danneggiati”. Le vittime furono 2.914, i feriti 8.848, gli sfollati 280.000, le abitazioni distrutte o danneggiate 362.000. Ma la questione, come avviene per le cose del meridione, non è ancora completamente chiusa.