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Dati Svimez, il Sud e la condanna di chi vive al Mezzogiorno

di Mattia Papa

Esisteranno ragioni storiche e materiali che daranno senso alla totale distruzione, eppure è sempre difficile rassegnarsi. Per la maggior parte delle volte non lo si fa, ma ci si convince che non si può far altrimenti, vivendo nel limbo della consapevolezza e dell’inazione. Così come accade dopo aver letto i dati Svimez e si tirano le somme della condizione di chi vive al Sud. Il Mezzogiorno d’Italia, dove sei vi sei nato, sei automaticamente condannato a vivere in condizioni di povertà. Uno su tre, contro l’uno su dieci di chi vive nel Settentrione del Belpaese. Situazione difficilmente commentabile. Intere regioni condannate al sottosviluppo permanente. Intere regioni la cui popolazione vive il presente con la consapevolezza che il futuro sarà peggiore, futuro la cui cifra la si misura nella povertà delle persone, in corpi, non nelle virtuali proiezioni statistiche che danno sempre l’impressione di star parlando d’altro e non del vuoto che abbiamo davanti.

“La regione italiana in cui è più alto il rischio di povertà è la Sicilia (41,8%), seguita dalla Campania (37,7%). Insostenibile la situazione lavorativa, riflesso di scelte e riforme evidentemente sbagliate che hanno reso il Mezzogiorno il luogo con la più alta disoccupazione giovanile d’Europa e con un altissima dispersione scolastica”, commenta la campagna Miseria Ladra lanciata di Libera e Gruppo Abele, rispetto al rapporto dello sviluppo del Mezzogiorno. “Gli occupati nel sud Italia – continua la nota – sono infatti pari a quelli del 1977, praticamente il primo anno in cui disponiamo di serie statistiche, mentre il FMI sostiene che ci vorranno 20 anni prima di ‘tornare’ ai livelli occupazionali del 2008. Per il settimo anno consecutivo il Pil al Sud è negativo ed il divario di Pil pro-capite è tornato a 15 anni fa, mentre sono crollati del 13% i consumi delle famiglie”.

La risposta della politica al baratro in cui siamo caduti assomiglia più ad un assordante silenzio che ad una progettualità reale. Eppure si hanno segnali di vita, non quelli che ci aspetteremmo. Anzi, pare che sia una chiara intenzione politica quella di continuare a bistrattare il Mezzogiorno, non solo non occupandosi dei problemi ambientali e della povertà – i problemi più evidenti ed emergenziali – ma anche distruggendo qualunque strumento affinché il Sud possa rialzarsi. E il decreto per la ripartizione dei Punti Organico nelle Università pubblicato il 7 agosto scorso ne è la conferma. Analizzando la tabella della distribuzione dei punti organico la situazione appare in miglioramento rispetto a quella dell’anno scorso. Diminuisce il numero degli atenei non virtuosi ed in generale tutti gli atenei incrementano i punto organico ricevuti rispetto all’anno scorso. Ma le apparenze ingannano.

“Ad uno studio più attento – dichiara Link Coordinamento Universitario – si comprende come in realtà il criterio di distribuzione premiale stia provocando forti danni nella direzione di un ridimensionamento selettivo del sistema universitario italiano. I dati che ne risultano sono tutt’altro che positivi. Alcune università perdono più di dieci PO: Palermo -14.63, Napoli Federico II -14.10, Messina -10.63, Roma La Sapienza -12.92. Perde di nuovo anche Bari che non raggiunge il tetto di meno dieci punti organico ma si attesta su un risultato negativo di -8.98 PO”. In poche parole, la questione meridionale si accentua nel sistema formativo, distruggendo l’unica speranza che ha il Mezzogiorno per insegnare ai propri figli come accudire, meglio dei loro padri, la propria terra.

Sembra sempre più evidente che se si continuano a definanziare gli atenei del Sud, a tagliare in PO le assunzioni sfavorendo così il ricambio interno ai luoghi della formazione, ossia sfavorendo l’occupazione per giovani ricercatori e docenti (non giovani con idee e atteggiamenti datati), che possano immaginarsi nuove prospettive per il proprio tempo; se la dispersione scolastica cresce e la povertà sociale è una macchia che si estende senza freni a velocità crescente; se i disastri ambientali sono i grandi assenti nel dibattito pubblico ma tra le maggiori cause di morte; se l’astio per l’altro e in particolar modo per il “diverso” è misurabile con l’indice di gradimento di Salvini e dei comizi o post di Beppe Grillo; se ci dicono che siamo sempre in debito (e di fatto fin dalla nascita dobbiamo far i conti con un debito non ripagabile in una sola vita) e non iniziamo a pretendere che ci venga restituita la possibilità di desiderare una vita diversa, in un mondo diverso, in un sistema economico che non deve uccidere, sfruttare, mortificare per continuare ad esistere; se non ribaltiamo la nostra posizione in primo luogo, richiedendo quanto ci hanno preso, dicendo a chi ci chiede ancora di dare, che è il momento che ci venga restituito tutto, che siamo noi ad essere in credito e non loro; se non assumiamo il compito storico di cambiare l’esistente partendo dall’immaginario a cui dobbiamo contrapporci; se non riterritorializziamo il nostro futuro oltre le colonne d’Ercole, tutte ideologiche, che ci hanno costruito, allora tanto vale arrendersi subito.

Un ultimo dato. Quest’anno l’Overshoot Day cade il 13 Agosto, ben 6 giorni prima rispetto al 2014. In altre parole, ci abbiamo messo 6 giorni in meno a terminare le risorse naturali che il nostro pianeta è capace di riprodurre in un anno solare. Scioglimento dei ghiacciai, repentini cambiamenti climatici, il dissesto idrogeologico di cui il nostro territorio soffre e paga sempre più di frequente il prezzo soprattutto in vite umane. Quello dell’alluvione in Calabria è l’ultimo ed ennesimo caso di come un evento di media intensità possa provocare enormi danni laddove una mancata gestione del territorio e di una cementificazione sfrenata, in una zona in cui la speculazione anche da parte della criminalità organizzata la fa da padrone, antepongono interessi finanziari alla vita della gente.

La sfida è al suo atto finale. Al sovrastrutturale dibattito tra ciò che è di sinistra e ciò che è di destra, c’è da guardare più a fondo e constatare che il piano della discussione sarebbe dovuto essere da sempre un altro. Invece ci abbiamo giocato con il futuro, divertendoci a fare i moralisti con la crisi culturale dilagante tra i giovani e la loro necessità di scappare dal mondo reale, invivibile.

Ora non sappiamo farci i conti con l’odio che monta dentro la maggior parte della popolazione per tutta quelle gente, altrettanto inconsapevole come tante altre volte lo siamo stati noi, che sfugge dalla morte; non sappiamo farci i conti con un Sud dilaniato e un sistema economico che volontariamente gira la faccia a tutto questo. Non sappiamo farci i conti con il nostro volto riflesso nello specchio che non reagisce contro la sicurezza del nulla del futuro. Ed è forse per questo che ci scattiamo continuamente selfie, così da regalare al riflesso della nostra vera vita, quella sui social media, un volto che non sappia di rimpianto e di inerzia all’agire.