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Festival di Cannes: “The Sea Of Trees” di Gus Van Sant stroncato da un’esagerata pioggia di fischi

sea1di Marco Chiappetta

CANNES – L’ultimo film di Gus Van Sant, che a Cannes già ottenne gloria e Palma d’oro nel 2003 con il magnifico “Elephant”, ha ricevuto una stroncatura unanime da parte di critica e pubblico, benché quest’ultimo fosse certo interessato alla proiezione per la presenza del divo Matthew McConaughey e la prestigiosa sfilata sul tappeto rosso delle 9 di sera. Ma “The Sea Of Trees”, lungi dall’essere un capolavoro o finanche uno dei migliori lavori dell’autore americano, non meritava tutta questa mala accoglienza. Ecco la storia. Fresco di lutto per la morte della moglie Joan (Naomi Watts), il professore di matematica Arthur Brennan (un sempre ottimo McConaughey, nella sua tipica vena cupa e malinconica) si reca con un biglietto di sola andata presso l’immensa foresta di Aokighara, in Giappone, luogo idilliaco dove tantissimi suicidi (un centinaio all’anno!) mettono fine ai loro giorni. Deciso a morire, Arthur incontra un uomo locale, Takumi Nakamura (Ken Watanabe), anch’egli aspirante suicida, ferito e smarrito nel cuore della foresta, e tra i due nasce una naturale empatia reciproca, che li porta in un viaggio tanto metaforico quanto letterale alla ricerca di una via d’uscita tanto dalla foresta quanto dal loro dolore. Flashback della vita precedente del protagonista, con gli aneddoti di una vita matrimoniale infelice e in perenne crisi, oltre agli strazi della cura per il cancro che colpì la moglie, si intrecciano al racconto e riempiono i pensieri di una notte di smarrimento e redenzione. Sebbene viziato da echi New Age, da un sentimentalismo un po’ melenso che esplode nel finale e da una dimensione spirituale che si fa talvolta ingombrante, é un film gradevole e originale, talvolta sorprendente e vivido come un’esperienza estrema, che attesta la sensibilità e il piacere di raccontare del suo eclettico autore, e colpisce anche visivamente per la bella fotografia crepuscolare di Kasper Tuxen. Eppure la stroncatura universale dell’anteprima probabilmente precederà un notevole e non del tutto giustificato insuccesso in sala. Vedremo.

László Nemes, regista di "Son of Saul"

László Nemes, regista di “Son of Saul”

Sempre in competizione ufficiale, é invece un grande successo “Son of Saul”, opera prima dell’ungherese László Nemes, racconto allucinato di un prigioniero ebreo di Auschwitz, Saul Auslander, membro suo malgrado del Sonderkommando, che trova un cadavere di un bambino in un crematorio e lo fa passare per suo figlio, deciso a salvarlo dalla cremazione e dargli una degna sepoltura. Così l’itinerario del protagonista, inquadrato quasi sempre di spalle da una camera mobile e “sporca”, si fa esperienza, cinema dello sguardo, panoramica claustrofobica e alienante della vita dei campi di concentramento. Il bravo esordiente é abilissimo a trasportarci dentro la scena, a farci vedere tutto coi suoi occhi, ma non proprio tutto, perché il pudore e la sfocata, parziale prospettiva soggettiva ci dicono solo una parte, seppur terribile, di questo mondo di orrore. Al di là della sua rigidezza a tratti insostenibile e del suo ritmo privo, come si deve, di qualsiasi fronzolo, é un film che vale come esperienza piuttosto che come cinema narrativo: la storia é un pretesto per dire qualcos’altro, e questo messaggio arriva comunque, forte e chiaro, in maniera davvero originale. É un film da festival, significativo di un modo di fare cinema tipicamente est-europeo e di trattare l’usuale tema dell’Olocausto, che tra poco conterà più film a riguardo che non vittime.

Nella sezione secondaria del festival, Un certain regard, destano poco interesse il coreano “The Shameless” di Oh Seung-uk, confusionario thriller con vene di melodramma, l’iraniano “Nahid” dell’esordiente Ida Panahandeh, ennesimo sguardo sul ruolo della donna in Iran ma senza eccellenti sbocchi di riflessione, e il giapponese “Journey To The Shore”, di Kiyoshi Kurosawa, favola spirituale confusissima che non convince e non appassiona mai. Più accessibile invece il francese “Maryland” di Alice Winocour, in cui Vincent (Matthias Schoenaerts), veterano dell’Afganistan, durante un congedo deve vegliare sulla moglie tedesca (Diane Kruger) di un importante uomo d’affari libanese, momentaneamente all’estero, e proteggere lei e suo figlio dagli assalti di un misterioso gruppo armato che ne vuole la pelle. Ben interpretato, è un onesto e convenzionale action, diretto alla maniera hollywoodiana, con un bel lavoro sul suono e sulle atmosfere molto cupe, intriso di tensione e paranoia, ma un po’ fiacco nella psicologia, non troppo attenta a conflitti (il trauma della guerra, l’attrazione tra la ricca signora e il sottoposto) che restano solo in superficie, e nemmeno allo sviluppo narrativo in sé, tutto soffocato dalle esigenze di spettacolo, pur tardive.

Merita invece una menzione un piccolo grande film presentato alla Semaine de la Critique, “Paulina”, di Santiago Mitre, ambientato nella provincia di Posadas, nel nord dell’Argentina: Paulina (Dolores Fonzi) abbandona le sue ambizioni da avvocato per dedicarsi all’insegnamento in una scuola difficile di un villaggio, e quando diventa vittima di questo ambiente sociale degradato, subendo lo stupro di un gruppo di sbandati, decide di rinunciare alle indagini e a tenere in grembo il figlio della violenza, contro il parere del padre (Oscar Martinez) e i dubbi della comunità. É un racconto aspro, duro, secco e sintetico di una giustizia relativa, di una morale ingiudicabile, di un mondo alla deriva che il bravo regista sa inquadrare con una messinscena precisa e vivida, con un uso dei piano-sequenza, della musica, della fotografia e soprattutto degli attori che ne fanno già un’opera compiuta ed assolutamente convincente.