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Baltimora, afroamericani in rivolta: richiesta giustizia sociale contro i metodi della polizia statunitense

Articolo #18 - Afroamericani in rivolta a Baltimoradi Marco Passero

Il Maryland versa in un dichiarato stato d’emergenza. Lo scorso 12 aprile Freddie Gray, un ragazzo di colore di 25 anni, fu arrestato per motivi non chiari. Tre agenti lo avevano visto scappare via da loro e, credendolo coinvolto in affari di droga, avevano deciso di fermarlo, arrestarlo e caricarlo sul loro blindato. Gray soffriva d’asma ma nonostante le ripetute richieste d’aiuto non venne ascoltato e, anzi, il blindato si fermò e con una deviazione corse a effettuare un altro arresto nella zona. Un’ambulanza venne chiamata soltanto dopo quarantacinque minuti, quando il ragazzo riportava ormai gravi lesioni alla spina dorsale. Dopo una settimana di coma, Freddie Gray è morto in ospedale lo scorso 19 aprile, a causa del mancato ascolto dato alle sue grida d’aiuto e al tempo perso prima del ricovero. La Casa Bianca, nella persona del neo ministro della giustizia Loretta Lynch, ha aperto un’inchiesta per far luce sull’accaduto, e il presidente Obama ha dichiarato che le effettive responsabilità verranno accertate.

Tuttavia i cittadini americani non ci stanno, non accettano di restare ancora una volta a guardare e soprattutto la comunità di colore non vuole continuare a vivere con il timore della figura “incontrollata” dell’agente di polizia e dei suoi metodi brutali: per questo motivo, dopo i funerali del giovane, la città di Baltimora è stata teatro di duri scontri tra polizia e manifestanti afroamericani. Durante il giorno c’erano state in realtà proteste pacifiche, ma quando alle 22 locali è scattato il coprifuoco la popolazione (composta per il 63% da afroamericani) si è mostrata decisa a rimanere in strada al grido di “no giustizia, no pace”. In un clima a dir poco surreale e di tensione latente i poliziotti in tenuta antisommossa si sono opposti alla folla che ha lasciato inascoltati gli appelli a tornare a casa (“Go home! Go home tonight!”), resistendo anche a lacrimogeni e spray al peperoncino.

Nella folla di Baltimora c’è stato spazio anche per una madre pronta a “recuperare” il figlio dai tafferugli, raggiungendolo mentre lanciava sassi contro gli agenti e non esitando a ricorrere a un duro rimprovero fisico e verbale per proteggerlo. La donna, esaltata del web, definita “mamma dell’anno” dai social e già molto ricercata dalle tv, ha dichiarato di aver temuto che “il suo unico figlio diventasse un nuovo Freddie Gray”. Ma intanto, un altro Gray c’è già stato: Terrance Kellom, un altro ventenne di colore, sospettato di rapina, è stato ucciso da un agente federale a Detroit.

Baltimora come Ferguson, dunque. Ma soprattutto (ed è questo lo spettro più inquietante) la memoria riporta subito al 1968 quando, dopo l’assassinio di Martin Luther King, proprio nella città del Maryland che per otto giorni fu trasformata in un vero e proprio campo di battaglia, si registrarono le proteste più violente. Gli Stati Uniti vivono il problema di una democrazia realmente “in bianco e nero”. Dai tempi della schiavitù gli USA hanno forse fatto più passi avanti di tutti a proposito di integrazione. Le difficoltà ora riguardano l’intolleranza, e la questione è terribilmente più grave se essa proviene dalle istituzioni, dalle forze di polizia. Il presidente Obama cerca di contenere e placare diplomaticamente la situazione, ma il dato doloroso è che gli adolescenti bianchi in America non sono vittime dello stesso odio, nessuno spara loro. E appena la discriminazione palese basata sul colore della pelle viene bandita, fiorisce il razzismo nascosto. I nomi di Michael Brown, Kajieme Powell, Tony Robinson, Freddie Gray e Terrance Kellom sono lì a ricordarlo, nella speranza che si tratti degli ultimi nomi di una lista già troppo lunga e intrisa nel sangue.