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Poveri (e) lavoratori. L’analisi dell’indigenza nell’ultimo libro di Chiara Saraceno

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E’ intitolato “Il lavoro non basta”, l’ultimo libro di Chiara Saraceno (Ed. Feltrinelli, 2015, p. 144,15€), sociologa italiana autrice di vari studi sulla disuguaglianza, questione femminile e sistemi di welfare. Tutta la prima parte dell’opera è volta ad evidenziare un cambiamento recente dell’opinione pubblica sul giudizio nei confronti di chi è povero.
Scrive la Saraceno: “Ciò che mi preme qui sottolineare è il cambio di atteggiamento nei confronti dell’accattonaggio e il tentativo di definizione di un codice di comportamento, sia per i poveri, sia per chi li aiuta. Questo codice sembra essere ispirato prioritariamente a una preoccupazione per il decoro degli spazi e per il contenimento del disturbo a chi povero non è, ma anche all’idea che i poveri abbiano una fibra morale più debole degli agiati”. Chi è povero viene emarginato, deve essere il più possibile oscurato negli spazi pubblici, perché non si è “meritato” il diritto di stare nella società a tutti gli effetti.
I poveri quindi “devono rimanere invisibili, non disturbare con la loro presenza e la loro ‘diversità’. Allo stesso tempo devono ‘darsi da fare’, mostrare che non si adagiano nella loro condizione, ‘attivarsi’, ma senza farsi cogliere a infrangere le norme”.
Va affermandosi sempre di più l’opinione che la povertà sia direttamente riconducibile alla “responsabilità” di chi è povero, come se il contesto sociale e la famiglia di provenienza non avessero alcuna importanza. Ma sulla “responsabilità” dei poveri l’autrice è molto netta: “In nessun modo si può sostenere che sia ‘colpa loro’. Questa argomentazione è nel migliore dei casi semplicistica (…) anche nelle società aperte e democratiche le chance di vita sono socialmente strutturate. (…) In paesi, tra i quali ancora l’Italia, la combinazione tra origine famigliare e contesto di residenza determina le condizioni di vita molto più di quanto non sia attribuibile alle caratteristiche e ai comportamenti individuali, ridimensionando l’immagine di società aperta, democratica, ove le opportunità sono egualmente distribuite e il merito individuale premiato”. Risulta ovvio affermare che soprattutto in relazione alla povertà minorile, lo status sociale di provenienza sia determinante.
L’opinione che ci siano paesi dove la povertà è stata sconfitta è infondata se si consultano gli ultimi dati statistici al riguardo. La povertà aumenta anche nei paesi più avanzati dell’Unione Europea. Secondo il rapporto sulla crisi economica in Europa del 10 ottobre 2013 della Federazione internazionale della Croce Rossa, quarantatré milioni di cittadini europei non dispongono di sufficienti risorse alimentari. In Germania, negli ultimi cinque anni il numero delle persone che si sono rivolte alle banche alimentari e alle mense per i poveri è raddoppiato (dati Paritätischer Gesamtverband), fino a raggiungere la cifra di un milione e mezzo di persone. In Francia (dati INRA) circa sei milioni di persone si trovano in condizioni di insicurezza alimentare per ragioni finanziarie.
Il problema della povertà non è necessariamente legato a quello della disoccupazione. L’autrice mette a fuoco l’aumento dei working poors, coloro che, pur lavorando non riescono ad ottenere un reddito sufficiente per mantenere sé e i propri familiari fuori dal bisogno. “Nel 2012 il 9,3% degli occupati in età compresa tra i diciotto e i sessantaquattro anni viveva al di sotto della soglia di povertà relativa dell’Unione Europea. Pensare che l’aumento dell’occupazione generi automaticamente una riduzione della povertà può essere un’illusione, se non si considera di che tipo di occupazione si tratta e chi è più probabile che benefici dell’aumento della domanda di lavoro”. Cioè colpevolizzare i poveri vuol dire anche pretendere che essi accettino qualsiasi lavoro. Come scrive Saraceno: “Solo dai poveri ci si aspetta che siano disponibili a fare ‘qualsiasi lavoro’, a prescindere dalle loro competenze”.
Il tema della povertà materiale crea per riflesso un problema politico, in quanto rende impossibile la partecipazione politica di certe fasce della popolazione. Il disagio economico crea un problema di giustizia: “L’esperienza della povertà materiale può anche ridurre, se non impedire tout court, di partecipare alla vita sociale e politica, perché non se ne hanno le risorse, materiali e/o culturali, o perché ci si sente, o si viene fatti sentire, inadeguati”.