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“Bloody Sunday” cinquant’anni dopo. Obama: la marcia di Selma non è finita

di Marco Passero

7 marzo 1965. Seicento attivisti di colore sono i protagonisti di una marcia in Alabama, da Selma a Montgomery. Mentre attraversano l’Edmund Pettus Bridge vengono attaccati da manganelli e gas lacrimogeni degli agenti della polizia di Stato, la cui violenza consegna alla storia la nota “Bloody Sunday”. Si tratta della prima delle tre marce afroamericane che si tennero nel giro di dieci giorni. In quegli anni Martin Luther King si era unito alla causa della Dallas County Voters League nella lotta per l’estensione del diritto di voto ai neri.

Lo scorso 7 marzo, esattamente cinquant’anni dopo e su quello stesso ponte, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha tenuto dinanzi a quaranta mila persone un discorso che la stampa non ha esitato a definire “potente” ed “emozionante”. Gli afroamericani manifestavano per i loro diritti e per la morte di un loro attivista, e il percorso storico che essi hanno avuto il coraggio di compiere, inducendo infine l’allora presidente Johnson a promulgare il “Voting Rights Act”, è un momento fondamentale della storia americana. Nel suo discorso Obama si è soffermato sul concetto dei diritti civili, ha parlato delle discriminazioni che ancora oggi i neri subiscono e non ha potuto ignorare il più che discusso rapporto del dipartimento di Giustizia a proposito della morte del diciottenne di colore Michael Brown, a Ferguson, che non incriminerà l’agente colpevole: “Un errore comune è pensare che il razzismo sia stato sconfitto, che il lavoro iniziato agli uomini e dalle donne che erano presenti qui a Selma sia concluso, e che ogni tensione razziale rimasta sia frutto di situazioni contestuali. Non abbiamo bisogno del rapporto su Ferguson per sapere che questo non è vero. Dobbiamo solamente aprire i nostri occhi, le nostre orecchie, e i nostri cuori, e accettare che il razzismo che c’era in passato è ancora un’ombra sul nostro presente. Sappiamo che la marcia non è ancora finita, che la battaglia non è ancora stata vinta, e che entrare in un’epoca nella quale saremo giudicati solo per quello che siamo significa ammettere queste cose”.

Obama ha però anche aggiunto che i progressi compiuti nel frattempo vanno riconosciuti: “Rifiuto di ammettere che niente sia cambiato, nel frattempo. Ciò che è accaduto a Ferguson può non essere un fatto isolato, ma non si tratta più di un comportamento endemico, legittimato dal costume e dalle leggi, cosa che poteva dirsi prima della nascita del movimento per i diritti civili”.

Inoltre, con fervente nazionalismo, il presidente si è così rivolto ai suoi connazionali: “Siamo gli immigrati che hanno viaggiato da clandestini per raggiungere queste spiagge: sopravvissuti all’Olocausto, defezionisti dell’URSS, gente che è scappata dal Sudan a causa della guerra. Siamo quelli che hanno lottato per guadare il Rio Grande perché volevano un futuro migliore per i loro figli. Ecco come siamo diventati quello che siamo. […] Siamo gli schiavi che hanno costruito la Casa Bianca e retto l’economia del Sud. Siamo i contadini che si sono aperti verso l’Ovest, e gli innumerevoli operai che hanno posato binari e costruito grattacieli, e si sono organizzati e battuti per i diritti dei lavoratori. […] Siamo i soldati dalla faccia pulita che hanno lottato per liberare un continente: siamo i piloti Tuskeegee, i decrittatori Navajo e i giappo-americani che hanno combattuto per il proprio paese anche quando questo gli negava la libertà. Siamo i pompieri che sono accorsi la mattina dell’11 settembre, e i volontari che si sono arruolati per andare a combattere in Afghanistan e Iraq”.

Un discorso appassionato e coinvolgente quello del primo presidente afroamericano degli USA, intriso di quella forza anche emotiva che la circostanza richiedeva per smuovere coscienze, mantenere il dibattito vivo, sottolineare che “ci sono altri ponti da attraversare”.