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“Boyhood”: il capolavoro di Linklater, nella storia del cinema

453366di Marco Chiappetta

TRAMA: In Texas, tra il 2002 e il 2013, la vita di Mason (Ellar Coltrane), dai 6 ai 18 anni, dalla scuola elementare al college, dall’infanzia all’adolescenza sino ai primordi dell’età adulta, crescita, maturità, diversi traslochi, i giochi, la spensieratezza, le amicizie, le prime esperienze, i primi amori, le prime delusioni, le ambizioni, le passioni, i sogni, i turbamenti, il rapporto giocoso e problematico con la sorella Samantha (Lorelei Linklater), di poco più grande di lui, con i genitori divorziati: la forte e premurosa madre Olivia (Patricia Arquette), che passa da un matrimonio all’altro e esaudisce il sogno di diventare insegnante, e il padre Mason Sr. (Ethan Hawke), affettuoso e giocoso, musicista fallito che sbarca il lunario senza mai perdere l’ottimismo. Nel frattempo anche l’America e il mondo cambiano, nella tecnologia, nella cultura, nella comunicazione, nella politica, nella società.
GIUDIZIO: Girato tra il 2002 e il 2013 con la stessa troupe di attori, convocata annualmente per girare nuove scene, il film di Richard Linklater è un unicum nella storia del cinema, un film nel vero senso della parola, ma anche molto di più, molto diverso da quanto si è sempre visto. L’esperimento di raccontare una storia di finzione, certo comune e ordinaria come è la vita, ma documentando e filmando la crescita e l’invecchiamento naturale dei suoi personaggi nell’arco di dodici anni, è riuscito e rivoluzionario. L’idea di trainare un film epico, quasi una saga, con gli stessi attori – attori della vita, quasi se stessi, interpreti reali e autentici – nell’arco naturale delle loro esistenze, è già di per sé curiosa, unica e geniale, ma la resa supera le aspettative, e il film rispetta l’ambizione di essere perfetto. “Boyhood”, già emblematico dal titolo, è un film grande e grandioso, eppure semplice e schietto, naturale e purissimo come la seta o l’innocenza, che riconcilia con la vita e con il cinema, raccontando l’una con il mezzo dell’altro. Un documentario di vita vera, e un inno a questa, attraverso il racconto epico, da romanzo di formazione, di una famiglia e dei suoi personaggi, delle storie quotidiane e finanche banali tanto sono comuni, ma anche di una società, di un paese, di un mondo che cambiano, maturano, crescono, invecchiano: l’America che passa dal post 11 settembre all’Iraq, da Obama alla crisi, o anche il passaggio di staffetta dal GameBoy all’Xbox, dai vecchi pc ai nuovi Mac sottilissimi, agli iPhone, a Facebook, a Skype, ma anche Dragon Ball, la moda emo, Lady Gaga, il boom di “Harry Potter” e “Twilight”, e tutto quanto sappiamo già del mondo in cui viviamo senza però osservarlo, senza fermarci mai a riflettere. Eppure per essere un film sul tempo, e il suo inesorabile trascorrere, il tempo del film non passa mai, sospeso in un limbo illusorio di un presente eterno e immutabile. Le domande filosofiche del film sono sul significato della vita, del tempo, della morte, dell’amore, del tempo e dell’io. Le domande sono poste con una profondità e una sensibilità impressionanti, tanto quanto è disarmante la semplicità delle risposte. Siamo noi che cogliamo il momento o è il momento che coglie noi? The moment is always right now, la vita è un flusso continuo, un perpetuo movimento dove, come in un film, i personaggi appaiono, scompaiono, riappaiono senza una logica e un perché, benché le tappe della vita sembrino esser parte di un sentiero già scritto e deciso. È per questo che lo spettatore è onnisciente, sa e prevede già tutto prima che accada, capisce tutto senza aver bisogno di spiegazioni e didascalie e commenti e giudizi, perché tutto avviene naturalmente, l’immagine chiarifica da sé. La capacità di Linklater, chiamato dopo una filmografia già eccelsa e peculiare a firmare il suo capolavoro, è nel saper cogliere e mostrare la vita per quel che è, con una sensibilità di osservazione, un’attenzione alla percezione e una sorta di misticismo attorno alle piccole grandi meraviglie del mondo che lascia sgomenti, e che è fresca, nuova, emozionante. Come e diversamente da Terrence Malick, perché Linklater non esce dai confini della vita, la sua dimensione è puramente fisica e materiale, concreta e palpabile, sempre in un Texas luogo dell’anima e della memoria. Raccontare la genesi e la vita di un personaggio è certo uno dei fortunati espedienti della narrazione, cinematografica e letteraria, ma Linklater si spinge oltre, servendosi degli attori come macchine del tempo, e senza artifici, o trucchi, o effetti speciali, o la vecchia strategia di cambiarli a seconda dell’età. È un film in diretta, in tempo reale, vero e autentico, sintetico ed efficace in quasi tre ore che non si sentono, così come vola il tempo della vita, così velocemente si cresce e si cambia. Certo, già Truffaut aveva documentato la formazione e la crescita del suo alter ego Antoine Doinel in un ciclo di cinque film tra il 1959 e il 1978, alterni e dislocati nel tempo; e tante storie cinematografiche hanno raccontato la genesi di un uomo o una famiglia, ma non così, almeno non in un solo film. Naturalmente commovente, talvolta da brividi, pur evitando drammi, patemi, scene madri e facili sentimentalismi, “Boyhood” segue un ritmo musicale (di una colonna sonora varia e straordinaria) nelle tappe di una storia grande come la vita, in cui sembra che non accada niente ma in realtà accade tutto. Poetico, filosofico, minimale e immenso, è un autentico ristoro per occhi e cuore, e le parole si fanno mute davanti allo schermo.
VOTO: 5/5