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Il viaggio della speranza, l’attesa di una vita

Sogno di una terra promessa


foto di Simona Pietropaolo
di Roberto P. Ormanni

NAPOLI – Un vecchio proverbio senegalese recita: “Mit mit moy garab am”, l’uomo è il rimedio per l’uomo.
Il mondo non finisce sulla soglia della propria casa. Fuori c’è sempre qualcuno da ascoltare.
Di fronte la Feltrinelli di piazza dei Martiri, incontro Mamadou, un ragazzone che si presenta con alcuni libri in braccio e con un sorriso sul volto. Viene dal Senegal. Ha trent’anni e da sei vive in Italia. Quando parla, i suoi occhi sono caldi ed esplorano tutt’intorno. Era il 2005 quando è arrivato, con un biglietto di sola andata, a Milano Malpensa.
Il volo da Dakar per l’Italia ha un costo che va dai 500 ai 5000 euro: è questo il prezzo di quello che viene definito il “viaggio della speranza”. Eppure, non tutti hanno la fortuna di salire su un aereo. A volte la speranza è affidata a un barcone: uno dei tanti che traversano il Mediterraneo, senza sbarchi sicuri e con dei destini in attesa.
Mamadou ha avuto la possibilità di partire grazie a suo padre, che ha rimediato il denaro del viaggio vendendo la propria casa.
In Senegal, l’Italia e in generale l’Europa sono viste come delle Terre Promesse, luoghi in cui potersi risollevare attraverso un lavoro. Nello stato subsahariano, infatti, gli impieghi scarseggiano e per i giovani la possibilità di un posto quasi non esiste. E’ così che i genitori scelgono di mandare i propri figli lontano, alla ricerca di un salario fisso, che tradotto vuol dire mantenimento di un intero aggregato rimasto in paese. Le famiglie senegalesi sono facilmente numerose, dieci persone in media, e il concetto stesso di nucleo familiare ha dei confini indefiniti. Padre, madre, sorelle, fratelli, ma anche zii, cugini, nipoti, fanno tutti parte di un unico focolare domestico. Inoltre, nei villaggi, le famiglie che ricevono risorse da un parente trasferitosi in Europa diventano un punto di riferimento sociale, giacché garantiscono un’assistenza economica solidale ai membri della comunità in stato di necessità.
Arrivato in Italia, Mamadou è riuscito ad ottenere un posto da operaio in una fabbrica milanese, che gli garantiva un guadagno minimo indispensabile per sé e per la sua famiglia in Senegal. Dopo due anni in cantiere, però, ha incontrato Jicho, un altro ragazzo senegalese, e da lì le cose sono cambiate. Mamadou, infatti, grazie alla segnalazione di Jicho, è entrato in contatto con l’Associazione Thiaroye Sur Mer Onlus, un’associazione di Pontedera che da qualche anno, legata a piccoli editori, cura la pubblicazione di alcuni libri senegalesi tradotti in italiano. I testi dati in stampa, però, non arrivano sugli scaffali delle librerie, ma vengono commerciati in strada da persone come Mamadou. L’organizzazione funziona secondo logiche di commercio elementare: i libri, messi a disposizione dall’associazione, sono venduti dai ragazzi delle comunità senegalesi. A questi, poi, viene lasciata una percentuale del ricavato.
Mamadou è felice di poter diffondere, attraverso questo impiego, la civiltà del suo paese. Ma soprattutto, sa che un testo venduto può sempre significare maggiore cultura. “E’ importante studiare”, mi dice, “Mi pento di aver lasciato la scuola”. Mi spiega che in Senegal il percorso d’istruzione prevede sei anni di scuole elementari, quattro di scuole medie e tre di superiori. Lui, dopo aver frequentato i primi dieci anni, si è allontanato dagli studi per cercare un lavoro e contribuire alle spese familiari. Le cose, però, non sono andate come sperava. Forse anche per questo, oggi, Mamadou ha scelto di dedicare una parte dei suoi guadagni al pagamento degli studi universitari della moglie. Sua moglie, che è rimasta a Dakar, dove vive e studia ingegneria, e che costantemente rivolge un pensiero al marito emigrato in Italia.
Mamadou lavora praticamente ogni giorno dell’anno, vendendo i libri che porta tra Napoli e Salerno. Ci sono periodi in cui gli affari ingranano, altri in cui la storia va peggio e le difficoltà crescono. Eppure, lui resiste e mantiene un’energia profonda quando parla del futuro: “Piano piano tutto cambierà”, confida sorridendomi, “Sta a noi, ai nostri fratelli, ai nostri figli fare un mondo diverso e un’Africa nuova”.
Mamadou ancora adesso sogna di poter tornare in Senegal, un giorno. Sogna di stare con la sua famiglia, sua moglie, i suoi amici. Sogna di lavorare, guadagnare, costruire i suoi progetti lì. E vivere bene, finalmente, nella sua terra.